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Il turismo frena i centri per migranti in Albania, la stampa locale: “Rama non può permettersi il via ad agosto”. E il cantiere è in ritardo

Saranno operativi il primo agosto l’hotspot di Shengjin e il centro di permanenza di Gjader, nel nord dell’Albania? A guardare da vicino i cantieri, pare proprio di poterlo escludere, anche se ad oggi la cosa non è ancora ufficiale. I lavori per la parte più complessa del costoso progetto di ‘esternalizzazione delle frontiere dell’Italia’, ossia il Cpr nel villaggio remoto della municipalità di Lezhe, sono tutt’altro che ultimati, mentre gli operai affrontano temperature che continuano a salire, con picchi che hanno raggiunto i 43 gradi. Le temperature fanno da sfondo anche alla stagione turistica, nuova variabile che rimette in discussione l’inaugurazione annunciata da Giorgia Meloni il 5 giugno scorso proprio a Shengjin. Allora la stagione estiva doveva entrare nel vivo e l’annuncio della premier aveva il peso di un punto e a capo. Ma dopo un giugno stentato, anche a causa dell’impennata generale dei prezzi in Albania, dalla metà di luglio il turismo di massa ha preso d’assalto le avveniristiche strutture ricettive di Shengjin. Per il governo italiano è il porto dove verranno sbarcati i migranti. Ma per l’Albania è innanzitutto una località balneare che vive solo d’estate.

Saranno 45 giorni di fuoco assoluto e di ‘tutto esaurito‘, una situazione difficile da far convivere con gli sbarchi dei migranti raccolti e selezionati nel Mediterraneo dalle navi militari italiane: “Con tutti i problemi recenti che gli sono caduti addosso, non credo che il presidente Rama vorrà aprire un fronte di lotta pure con i potenti imprenditori del turismo. Nonostante le promesse di Meloni, vedrete che hotspot e Cpr saranno attivi da settembre, forse addirittura da ottobre”. E’ quanto rileva una giornalista albanese che segue la vicenda e bene informata di tutto quanto accade nei palazzi di Tirana. Il 5 giugno era presente alla conferenza stampa congiunta tra Edi Rama e Meloni. Il Fatto l’ha incontrata il 17 luglio proprio in un bar di Shengjin.

La cittadina appare oggi molto diversa da quella già visitata dal Fatto a metà aprile, quando era stato fin troppo facile constatare che la data del 23 maggio, la prima fissata per l’inaugurazione del progetto Albania, sarebbe stata impossibile da rispettare. Allora il 90% degli hotel e dei locali erano chiusi, ora è tutto diverso. Per non parlare del traffico: una follia assoluta gettarsi nel magma dell’unica strada presente a Shengjin, del tutto congestionata. La stessa dove dovranno, gioco forza, transitare le file di pullman carichi di richiedenti asilo diretti al Cpr di Gjader, lontano 22 chilometri. “La vedi anche tu la situazione – aggiunge la collega che preferisce mantenere l’anonimato -. Per uscire dal porto c’è una sola strada stretta a una corsia per senso di marcia, veicoli parcheggiati ovunque, rallentamenti, code. Dove passerebbero quei pullman nei giorni affollati di agosto? No, è impossibile, tutto questo non ha senso. Operatori e turisti (più della metà arrivano dal vicino Kosovo, ndr) protesterebbero a lungo e ripeto, il governo non se lo può permettere in questa fase”. E aggiunge: “Sono certa che faranno passare il clou della stagione balneare e poi, con calma, a inizio autunno attiveranno il progetto”.

In effetti l’hotspot all’interno del porto di Shengjin è pronto da mesi. I sei edifici prefabbricati chiusi dentro la recinzione realizzata con jersey e pannelli di acciaio sarebbero a disposizione da subito. A livello tecnico e pratico il problema è altrove, a Gjader, dove sorgerà la prigione a cielo aperto che inizialmente dovrà ospitare fino a mille migranti per poi arrivare a tremila. Nonostante l’enorme forza lavoro impiegata, con orari vicini all’h24 e la massima operatività degli addetti anche con il sole a picco e temperature insostenibili, sembra che la piena funzionalità del Centro di permanenza sia parecchio in là da venire. E quanto ci sia ancora da fare appare ad occhio nudo. Si tratterà di un centro prefabbricato, mentre le vecchie e malconce strutture militari non saranno utilizzate. Parte dei moduli abitativi, tipici delle emergenze post-calamità naturali, è stata trasferita all’interno della grande area nel territorio tra i due villaggi di Gjader e Kakariq. Altri moduli sono stati accatastati all’esterno, dove un tempo c’era un distributore di benzina, proprio davanti all’ingresso sud del futuro Cpr: “Piano piano li porteranno tutti dentro e ne arriveranno degli altri”, è tutto quanto ci dice la guardia di vigilanza fissa sul deposito di container.

Dalla parte opposta, all’ingresso dal villaggio di Gjader anticipato da una delle due piste in abbandono del vecchio aeroporto militare, c’è un altro deposito. Cataste su cataste di materiale prefabbricato della Lattonedil Spa Milano, un’azienda del comasco, necessarie per realizzare le strutture ricettive. Si tratta di pareti isolanti e antincendio di alta gamma tuttora parcheggiate all’esterno del perimetro del centro. Al di là del posizionamento dei moduli dove verranno ospitati i migranti e tutti i servizi a loro collegati e gestiti dall’Italia, compresa la mini-prigione da 20 posti, un dettaglio salta subito all’occhio: le mura di protezione del Cpr mancano del tutto. Come evidenziato nei progetti, si tratta di una recinzione alta 7 metri, da realizzare probabilmente con un reticolato metallico, in linea coi Centri per i rimpatri in Italia, veri e propri bunker inespugnabili per evitare fughe e allontanamenti dei trattenuti. Stiamo parlando di un’area grande svariate migliaia di metri quadrati che, ad oggi, di quella recinzione perimetrale non mostra alcuna traccia.

Le poche centinaia di abitanti di Gjader assistono alle grandi manovre senza troppi sussulti. La vita del villaggio scorre lenta nell’unico bar del paese. La calma torrida rotta solo dalle sgommate delle decine di mezzi diretti all’ex base militare. La maggior parte sono veicoli con targa italiana, a Gjader ne arrivano a dozzine ogni giorno. Blerim, ex militare in pensione, li osserva spingendo verso casa la sua bici appena aggiustata. Con lui c’è il suo fedele cagnetto: “Per trent’anni ho svolto il mio lavoro con l’esercito, soprattutto dentro quella base. Aspetta – si interrompe un attimo Blerim -, per caso sei un giornalista della tv italiana? Quel servizio è diventato molto famoso qui in Albania. I lavori al centro procedono veloci, ma servirà ancora tempo. Mio nipote è lì dentro, lavora per una ditta e proprio ieri mi ha detto che c’è ancora molto da fare”.