Comincia tutto con un piccolo incidente di percorso: una delle valigie della band è andata perduta, ed è così che il concerto, previsto per le 22, inizia con un ritardo del tutto atipico per Armonie d’Arte, il festival organizzatore, ogni estate, di una nutrita serie di concerti di ogni tipo (dalla lirica al jazz, dal pop più raffinato al balletto) e, tra gli altri, anche del live di Hiromi Uehara, la pianista jazz giapponese di nobilissima formazione musicale e sorprendente carisma compositivo, esecutivo e performativo. La valigia, infine, viene recuperata, ed è così che dall’aeroporto di Lamezia Hiromi giunge finalmente all’Orto Botanico di Soverato per tenere un concerto di indiscutibile valore: dentro, intorno e ben oltre il jazz, come solo la pupilla di Chick Corea può permettersi di fare.
Due synth, l’immancabile gran coda e poi una tromba, un basso elettrico e la batteria: questo l’organico della nuova Hiromi, quella che con Sonicwonderland, il suo ultimo album in studio, ha già ammaliato le platee di mezzo mondo. Un organico che le consente anche di mettersi da parte, di lato, per lasciare il dovuto spazio a musicisti che di tutto avrebbero bisogno fuorché di presentazioni: la tromba infatti è quella del newyorkese Adam O’Farrill, discendente di una vera e propria dinastia di incredibili musicisti (il nonno, Chico O’Farrill, tra i più grandi esponenti del jazz cubano, il padre, Arturo O’Farrill, 6 volte vincitore dei Grammy Awards); il basso è nelle sapienti mani del francese Hadrien Feraud, già collaboratore, tra gli altri, di John McLaughlin, Chick Corea, Billy Cobham e Jean Luc Ponty; la batteria viene talvolta pestata talvolta appena accarezzata da Gene Coye, nativo di Chicago e già collaboratore di Carlos Santana.
Appena un momento, quasi a inizio concerto e prima di immergersi definitivamente nelle sue scorribande sonore, per salutare il pubblico, dirsi felice di trovarsi a Soverato e infine presentare i suoi musicisti: un saluto, rigorosamente preparato in italiano, dalla cui pur brevità riesce a emergere tutta la dolcezza di una musicista di incredibile sensibilità, infinita ispirazione, sorprendente talento. Le strutture dei pezzi che Hiromi porta in tour sono le più varie, ma è nella song-form, in perfetta tradizione fusion, che trova il suo habitat naturale, quello ideale per interpolarvi un’infinità di soli, suoi e dei suoi musicisti, che rappresentano a tutti gli effetti, viste e considerate soprattutto le discendenze, un distillato di storia del jazz. In formissima, tra gli altri, la tromba di O’Farrill, capace di tutto e di più: dalla bellezza di lunghe e atmosferiche note tenute fino al virtuosismi più arditi, con intuizioni melodiche degne delle sue nobili origini.
Sonicwonderland, il brano, giunge secondo nella scaletta del concerto, e Hiromi, dopo aver già dato il 150% della sua grandezza in un paio di soli inseriti nel brano d’apertura, può adesso inoltrarsi nei più graffianti suoni di un’elettronica in cui dimostra di trovarsi totalmente a suo agio, come fosse appena stata sputata fuori dalla centrifuga di un progressive ancora tutto da inventare. Giunge poi il momento di uno dei brani più ispirati del suo ultimo lavoro, Utopia, pezzo di notevole ispirazione armonica e melodica, brano interamente costruito, nella sua prima parte, tra i suoni più acuti del piano e quelli del basso, in un giocoso dialogo di grande bellezza che lascia spazio a una serie di splendidi virtuosismi sul cinque corde di Feraud.
Quel che invece più stupisce, nei soli della pianista giapponese, è la frastagliata, spezzettata, sbriciolata costruzione a cellule motiviche, un insieme di pattern ritmico-melodici che vanno perfettamente incastonandosi fra loro come se si trattasse di un meraviglioso tetris sonoro, una sorta di corrispettivo linguistico e musicale a quel fantastico mondo visivo nel quale Hiromi ha voluto immergere il suo ultimo album, Sonicwonderland, notevolmente ispirato al mondo dei videogame a 8 bit. L’organicità di questo lavoro emerge dunque da ogni suo lato, da ogni suo angolo prospettico, a partire da quello visivo per proseguire con quello linguistico e culminare nelle peculiarissime scelte timbriche, nei tipici suoni di synth cioè che con le avventure di Super Mario hanno costellato l’infanzia di intere generazioni di giovani, giovanissimi e diversamente adulti a partire dai primissimi anni Ottanta.
Hiromi intanto si destreggia tra tutte le tastiere che ha a disposizione creando impasti timbrici che potrebbero venir fuori da un fortuito incontro tra i Kraftwerk e Keith Jarrett: il tutto anche all’interno di lunghe sequenze che dell’informale, del rumoristico e dell’atmosferico fanno le proprie linee guida. Una velocità sullo strumento mista a una tale leggerezza esecutiva che direttamente dal paradiso dei più grandi pianisti di sempre Michel Petrucciani non può far altro che benedire. Il tutto in una tale animaccia blues che sembrerebbe la reincarnazione di qualche vecchia blue lady del più profondo delta del Mississippi: non è certo un caso, del resto, se tra le sue massime fonti di ispirazione vi sia stato Ahmad Jamal.
Un bis, infine, che è una delle più belle pagine pianistiche degli ultimi vent’anni, la sua versione della celebre Blackbird dei Beatles, una poesia tanto fragile e delicata quanto armonicamente e concettualmente ardita. Un ultimo, generoso dono da parte di una vera signora della musica contemporanea.