Premessa necessaria. Ho assistito decine di magistrati, nel corso di centinaia di interrogatori di pentiti di Cosa nostra. In pochissimi verbali viene indicato il mio nome. La decisione di ometterlo, ha origine lontane, quand’ero negli anni 80 in servizio alla Mobile di Palermo. Il motivo era legato da ragioni di sicurezza, in relazione alle mie conoscenze personale di gran parte del gotha mafioso del territorio dove sono nato e da minacce nel frattempo pervenute. Tant’è che negli atti del maxiprocesso, viene giustificata la mancanza di firma in alcuni atti. Tale prassi, su decisione del Viminale, specie dopo l’allontanamento d’ufficio da Palermo, si protrae negli anni, anche in servizio alla DIA.
Ho fatto questa premessa, perché nei tre interrogatori compiuti a luglio da Paolo Borsellino a Gaspare Mutolo, io non compaio pur essendo stato presente. Del resto non compaio nemmeno nei verbali degli interrogatori, che nell’autunno del 1989, il dottor Falcone fece a Francesco Marino Mannoia nella sede dell’Istituto superiore di polizia di Roma. Come ampiamente noto, nella mattinata di venerdì 17 luglio ’92, Borsellino dopo aver interrogato Mutolo, ci salutò per darci appuntamento il lunedì o il martedì. Io, il mio collega – addetto alla verbalizzazione – Danilo Amore, i pm Gioacchino Natoli, Guido Lo Forte e Mutolo, continuammo gli interrogatori nel pomeriggio, anche il giorno successivo.
Mi preme evidenziare che nell’interrogatorio di venerdì, Natoli, ancor prima che iniziassimo, chiese a Mutolo se era a conoscenza di uomini delle istituzioni collusi con Cosa Nostra. Mutolo, immediatamente fece i nomi del magistrato Signorino, Contrada ed altri magistrati, che io non memorizzai (i due li conoscevo bene). A quel punto Paolo Borsellino si arrabbiò tantissimo, accendendosi una sigaretta, pur avendone un’altra accesa sul posacenere. Natoli, evidentemente non era stato messo al corrente sul modo di procedere gli interrogatori. Secondo Borsellino, avremmo dovuto affrontare per prima le “famigghie” mafiose con eventuali nuovi “punciuti”: poi gli omicidi e infine i collusi.
Io che ero informato del programma, diedi un calcio a Mutolo, invitandolo a tacere. Questo è quello che accadde venerdì, mentre Borsellino era intento a leggere o scrivere nella sua agenda rossa.
Da anni mi pongo una domanda, ma non sono il solo. A chi ha giovato la morte di Falcone e Borsellino? In verità, alcune risposte anche se tardivamente stanno arrivando. Mi riferisco alla pista mafia-appalti. Vorrei sottolineare, come racconta Mutolo, che Falcone era già nel mirino di Cosa nostra sin dai primi anni 80. Infatti, ci raccontò dettagliatamente sulla composizione del commando e del luogo dove l’agguato sarebbe dovuto avvenire. Ebbene, io sono propenso a pensare che si sarebbe trattato di un omicidio preventivo, visto che già Falcone stava diventando una spina nel fianco dei mafiosi. Infatti, la strage di Chinnici avviene dopo l’emissione di 161 mandati di cattura: una sorta di strategia preventiva degli interessi di Cosa nostra. L’agguato a Falcone (non è riferito all’Addaura) non si concretizza per paura di perdite umane tra i mafiosi stessi. Invero, le stragi di Capaci e via D’Amelio, secondo il mio parere, maturano per altri interessi, compreso la citata pista mafia-appalti. Anzi, direi che appare privilegiata. Se qualcuno davvero pensa che le due stragi, siano solo opera dei viddani o peri incritati dei corleonesi, allora penso che non conosca a fondo la mentalità mafiosa.
Noi della DIA, abbiamo identificato, per quanto riguarda Capaci, l’ala militare che compì la strage, ma siamo ben lontani di conoscere il coacervo d’interessi con riferimento alla strage che legava Cosa nostra ad elementi estranei al sodalizio. Già sarebbe un successone se riuscissimo a scoprire perché il procuratore di Palermo Giammanco non voleva affidare gli interrogatori di Mutolo a Borsellino. Cosa accadde a Giammanco se dopo tanta ritrosia, decise obtorto collo di affidare le indagini su Mutolo a Borsellino?
L’altro giorno, confrontandomi con l’ex pm Antonio Ingroia, con quale sono legato da reciproca stima, mi ha detto che “Giammanco non voleva assegnare a nessun costo a Borsellino il compito di interrogare Mutolo ma poi fu costretto dalle circostanze a farlo anche perché Mutolo avrebbe smesso di collaborare”. La decisione di Mutolo, mi risulta personalmente perché io lo nascondevo da diversi giorni in un anonimo appartamento romano, in attesa dell’arrivo di Borsellino a Roma.
L’ultima volta che incontrai Borsellino prima della sua morte – continua Ingroia – , mi disse: “Aspettiamo che tutti vadano in ferie e poi in agosto tu vieni con me a interrogare Mutolo e Messina mentre gli altri sono al mare…”. Purtroppo il “piano” si interruppe presto: la domenica successiva Giammanco gli telefonò la mattina presto per dirgli che gli avrebbe affidato anche le indagini di Palermo, ma l’attentato era già pronto e Paolo sarebbe saltato in aria qualche ora dopo”.