Mafie

Strage di via D’Amelio, di verità si muore ancora: io tengo a mente due lezioni di Rita Borsellino

Oggi come 32 anni fa si viene uccisi per lo stesso motivo: la ricerca della verità. Perché la verità è sempre la cosa più odiosa per chiunque detenga il potere e lo voglia conservare a qualunque costo.

Paolo Borsellino venne fatto saltare in aria il 19 luglio 1992 insieme ad Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Cosina, Claudio Traina, perché pretendeva la verità sulla strage di Capaci e mai avrebbe accettato una gestione “politica” di quel fatto criminale, né che sulla gestione “politica” di quel fatto criminale si edificasse il futuro della democrazia del nostro Paese. La verità è un fastidio insopportabile per ogni compromesso “ragionevole” che implichi l’oblio delle responsabilità a favore della continuità del potere e Paolo Borsellino lo sapeva bene, anche per questo era certo che dopo Falcone sarebbe toccato a lui.

La verità resta una materia incandescente, una specie di kriptonite, anche nel presente delle nostre pretese democrazie avanzate: basta scorrere al riguardo il nuovo report del Centro per il pluralismo e la libertà dei media nell’Unione europea (che finalmente circola!), il quale rispetto all’Italia parla di un “rischio allarmante” per l’indipendenza della Rai dal potere politico. E, come è noto, l’indipendenza dell’informazione dalla politica, così come quella della magistratura, sono due delle condizioni necessarie (non sufficienti!) perché la verità possa essere trovata e riferita, contribuendo all’igiene del potere.

Ma questa destra di “eredi-al-quadrato” (del Duce e di Berlusconi) opera sistematicamente per sostituire la verità con la propaganda: non è forse un episodio da ascrivere a questa operazione mutante la decisione di dedicare al pregiudicato, finanziatore di Cosa Nostra, l’aeroporto di Malpensa? E ovviamente per l’anniversario della strage di Via D’Amelio questa maggioranza darà fiato alle trombe della retorica per commemorare l’eroismo patriottico dei caduti contro la mafia, come se la forza della mafia non sia dipesa allora come oggi dalle connivenze con certo potere politico, economico e culturale.

La verità banalizzata è l’unica ammessa dal circuito mass-mediatico e chi si ostina a scavare oltre le apparenze viene sempre più spudoratamente tacciato di “complottismo”, il che rappresenta un’altra declinazione della grande fabbrica della propaganda difensiva del potere, che punta alla sistematica infantilizzazione dell’opinione pubblica.

Un capolavoro giornalistico in questo senso è stato un editoriale di Federico Rampini di qualche giorno fa dal titolo Attentato e teorie del complotto: il virus paranoide colpisce ancora, sull’attentato a Trump. Si segnala questo editoriale per il “meta” argomento adoperato: coloro che, loro malgrado, vivono all’interno di regimi autoritari devono purtroppo abituarsi all’idea che la verità sia sistematicamente pilotata dal potere, ma per chi (come noi occidentali!) vive in regimi democratici dove l’informazione è libera e il potere trasparente, pensare al complotto per ogni cosa che accade è una forma patologica di paranoia. Applausi!

Dobbiamo piuttosto continuare a batterci per distinguere il complottismo paranoide che vive di suggestioni non verificate, dalla tenace ricerca di verità oltre la cortina fumosa delle spiegazioni addomesticate. Lo dobbiamo ai morti della nostra storia repubblicana, da Portella della Ginestra fino a Giulio Regeni, Andy Rocchelli, Mario Paciolla, Luca Attanasio… passando per quell’Enrico Mattei la cui vicenda tanto aiuterebbe a comprendere gli attuali conflitti in Ucraina e Palestina. Lo dobbiamo alla democrazia nata dalla guerra di liberazione dal nazifascismo, che non è, a causa di questo imperversare di propaganda, irrimediabilmente corrotta ma resta l’unica esperienza possibile, per quanto dolorosa e contraddittoria, di ricerca della libertà e della giustizia. Nonostante tutto.

Queste due parole – “nonostante tutto” – sono quelle che spesso usava Rita Borsellino, la sorella di Paolo, che dopo il 19 luglio 1992 ebbe il coraggio e l’umiltà di darci due lezioni straordinarie.
La prima: la Storia non consente a nessuno di ficcarsi in un “buco” tranquillo e neutrale, la Storia pretende la partecipazione di ciascuno di noi. Rita ci raccontò tante volte che nella sua vita mai avrebbe pensato di impegnarsi pubblicamente, avrebbe semmai gestito la farmacia di famiglia a Palermo, sapendo che Paolo avrebbe fatto le “cose serie”. Ma la strage le impose un “risveglio”, le impose di prendere parte e così nel 1995 Rita sarà tra le fondatrici di Libera.

Ma la seconda lezione è quella che ancora più mi commuove perché Rita, nel 2006, decise di rimettersi in gioco, rischiando tutto, senza difendere alcuna rendita di posizione, pur di cercare di sbarrare la strada del governo della Regione siciliana a Cuffaro e sodali. Si candidò Rita, come fece nel 1978 Peppino Impasto, per farsi Repubblica, perché la politica non fosse “cosa loro” ma cosa di chiunque si riconosca nella Costituzione. La sua candidatura fu una grande esperienza collettiva nazionale, una grande speranza. Perse Rita, vinse Cuffaro e sappiamo come è andata a finire. Ma Rita vinse la battaglia più importante: quella di testimoniare che verità e giustizia passano da una politica libera dalla mafia. E non prostrata ai suoi interessi.