di Michele Canalini
Ecco, una cosa in più, in piena estate, detta sugli insegnanti.
La scrittrice e docente Cristina Dell’Acqua, dalle pagine del Corriere della Sera, ha proposto per tutti i docenti un “giuramento di Socrate”: “Farò in modo che la mia aula sia un luogo d’ascolto, di confronto, di dubbi, piena di vita. E dove si impara a contemplare”. Ecco dunque che, dopo la spada di Damocle (genitori e presunti esperti), la fatica di Sisifo (le innumerevoli incombenze burocratiche), il labirinto di Minosse (la testa degli studenti), il canto delle Sirene (le promesse di aumenti stipendiali), la guerra di Troia (la speranza per il ruolo, e dieci anni sono quantomeno un’ipotesi ottimistica) e il pomo della Discordia (io sono l’insegnante più bravo, preparato, sapiente e pure più bello rispetto a tutti gli altri), arriva infine la formula del giuramento di Socrate. Magari da recitare in chissà quale inverosimile maniera e in quale improbabile circostanza.
“Eccallà”, direbbe oggi un erede dei Latini.
Il paragone con il giuramento di Ippocrate dei medici a me pare, poi, una forzatura e soprattutto, visto che ci siamo, forse potrebbero essere altre le categorie che dovrebbero prestare un qualche giuramento, qualora questo servisse a qualcosa.
Di una cosa sono certo, però. Non basta certamente il “giuramento di Socrate” a cambiare le motivazioni di chi fa l’insegnante come forma di ripiego professionale o come tipo di complemento retributivo per se stesso. Di questo sono sicuro. Per quanto riguarda il resto, diciamo di “preferire di non sapere”, per non uscire dalla Grecia antica e considerando il caldo di questi giorni.