Musica

Booliron, quando la Riviera romagnola era l’epicentro dell’hip hop: “È stato uno spartiacque indelebile”

Il documentario di Figliola, prodotto da Flash Future, racconta il legame tra Rimini e la scena urban: "Restituisce la fotografia di quello che è stato un grande momento, a livello culturale ma anche di costume".

di Simone Bertozzi
Booliron, quando la Riviera romagnola era l’epicentro dell’hip hop: “È stato uno spartiacque indelebile”

C’è stato un momento in cui la Riviera romagnola è stata l’epicentro dell’hip hop in Italia. Niente cellulari nella tuta gold. Né jeans Amiri o Richard Mille al polso. Ma, soprattutto, niente autotune a dopare il flow. Eppure tutto quel mondo urban-patinato, che oggi monopolizza le classifiche a suon di bitch e money – scolpendo l’immaginario e l’estetica della gen Z – ha una radice comune.

Il crocevia porta un nome iconico e coordinate piuttosto precise sulla carta geografica: Rimini. La west coast italiana, con le sue lunghe spiagge e i locali alla moda, a cavallo degli anni ’80 e ’90 diventa luogo fertile per molte contaminazioni e cambia per sempre l’underground italiano.

Parola di Booliron, il docufilm dell’esordiente Francesco “Kambo” Figliola, che in 75 minuti prova a tratteggiare proprio le radici di quel mondo. “Questa non è la storia dell’hip hop però – precisa il rapper Word, voce narrante e co-sceneggiatore dell’opera – è l’insieme di tante storie che nascono in riviera e che hanno ispirato e influenzato con una forte accelerazione l’arte, la musica, la danza e la cultura più innovativa in Italia”.

Booliron, ispirandosi ad uno dei pezzi più iconici della scena riminese, ha un significato preciso. Perché in dialetto romagnolo il bulirone, “buliron”, è proprio il caos. In questo caso un caos creativo. E come per il film simbolo di Fellini, Amarcord, può raccogliere molti significati onirici e intercambiabili. Significa unire alla rinfusa oggetti e contesti, ma rappresenta anche situazioni esplosive, torbide e voci concitate.

Prodotto da Flash Future, con il sostegno di: MIC, Emilia-Romagna Film Commission, Film Commission Torino Piemonte e in collaborazione con Rete DOC, il docufilm di Figliola – presentato a Rimini all’inizio di luglio – mette assieme la voce di esperti, musicisti, artisti, produttori, curatori ed ex direttori artistici, per la prima volta tutti insieme, regalando finalmente un quadro completo degli Anni ’80-’90 sulla riviera romagnola. E un codice per leggere l’ascesa del movimento hip hop.

Ma perché proprio Rimini e non invece Milano, Bologna o Napoli?

“Rimini diede la possibilità al movimento hip hop di sperimentare la dimensione dei club, cosa che in altre città non sarebbe mai potuto accadere – spiega il regista e disc jockey Francesco Figliola -. Rimini è stata testimone di un cambiamento epocale, il mondo del clubbing in Italia si è sviluppato proprio in Riviera, in netto anticipo su molte altre grandi città europee.

Il mondo delle discoteche che si trasforma in fenomeno sociale, un caos creativo che genera appartenenza, un rituale identitario che porta le persone a rispecchiarsi con il club.

“Proprio così. Fino a quel momento, siamo all’inizio degli anni ’90, l’hip hop in Italia era solo quello dei centri sociali. A Rimini, grazie alla vision di alcuni direttori artistici, furono proprio le discoteche – che già alla fine degli anni ’80, oltre a intrattenere dettavano stili, mode e nuovi modi di comunicare – a diventare un veicolo formidabile, un luogo in cui sperimentare e quindi evolversi. Un vero bulirone, insomma.”

Non è che con il tuo lavoro intendi sostenere che il rap italiano è nato a Rimini?

“No, per carità. Booliron non intende decretare alcun primato. Ma a Rimini si concretizzò e si consolidò una scena primordiale che in quegli anni stava nascendo. Dopo eventi come The Big Wall e in seguito Indelebile ci si rese finalmente conto che qualcosa stava cambiando. “Tornammo a Roma con una percezione di noi stessi completamente diversa”, racconta anche Er Piotta nel film. Quello fu di sicuro uno spartiacque fondamentale”.

Geolier, Tony Effe, Emis Killa, Tedua, ma anche superstiti della Golden Age come Marra e Gué Pequeno… mentre stiamo parlando la top 10 di Spotify parla sempre più urban. Cos’è cambiato rispetto agli anni in cui il rap era considerato una nicchia per pochi?

“C’è stata sicuramente un’evoluzione, il mondo della discografia ha smesso da un certo momento in poi di dettare il mercato ed il rap è riuscito a prendersi il suo spazio come nel resto del mondo”.

Quel rap, come detto, veniva dal periodo delle Posse e aveva una forte connotazione politica. Si può dire che negli anni quella connotazione ha lasciato sempre più spazio al disimpegno e a un modo più leggero di intendere la musica?

“Il linguaggio cambia, cambia la necessità e il modo di comunicare, cambiano gli argomenti e il messaggio. Nessuna delle due cose sostituisce l’altra però, la musica è lo specchio della società e il rap ha sempre raccontato i bisogni della generazione che lo vive”.

Hai citato Indelebile 94, la primissima grande jam italiana. Nel tuo docufilm ci sono immagini e video inediti che raccontano proprio quelle giornate storiche. Cos’ha rappresentato quell’evento per la scena?

“Ha rappresentato tanto. Anche perché nessuno si aspettava una cosa del genere, fu la prima volta che la scena hip hop italiana ebbe l’opportunità di confrontarsi ufficialmente. Fino a quel momento non c’era una rete, nessun circuito consolidato: c’erano quelli del Teatro Regio a Torino, di Piazza Gesù a Napoli… ogni città aveva le sue zone. Parliamo di un’epoca pre-internet, era l’hip hop dei centri sociali e solo tramite le cosiddette fanzine riuscivi a sapere che dall’altra parte dell’Italia c’era un altro come te, che faceva quello che facevi te. Prima di Indelebile c’erano già state delle cose simili in Italia ma nessuna con una connotazione così chiara. Indelebile non a caso è stata definita la Woodstock dell’hip hop italiano”.

C’erano tutti, da Neffa coi Sangue Misto a Fabri Fibra, dal Piotta ai Sottotono. Alcuni alle primissime armi. C’è una foto incredibile in cui si vedono Tormento e Fish, che proprio in quell’anno avrebbero raggiunto il successo nazionale con il brano La mia Coccinella, sgranare gli occhi davanti a Word che fa freestyle.

“Infatti, come racconta lo stesso Piotta, quell’incontro fu uno spartiacque. Dopo Indelebile esplode la Golden Age perché ognuno scopre che c’è un altro come lui, per cui si torna nella propria città d’origine con una consapevolezza nuova. Fabri Fibra, che era giovanissimo e partecipò solo come spettatore, proprio a Rimini ebbe la sua… illuminazione. Come racconta lui stesso in un altro bellissimo docu sull’hip hop che si chiama Numero Zero. Bisogna anche dire che il successo di Indelebile, e quindi la sua capacità di attrarre gente, fu anche grazie ad alcune leggende del writing mondiale. Per la prima volta erano lì, potevi ammirarli dal vivo”.

Si parla molto di rap e di musica, ma come racconti nel tuo film l’hip hop è un movimento articolato che abbraccia più arti. Tra cui soprattutto quella visiva. A Rimini, proprio in quel luglio ’94, erano presenti personaggi e artisti internazionali come Mode2, Gasp e Sharp. Qual è stato e qual è oggi il ruolo del writing per l’hip hop?

“Oggi le quattro arti dell’hip hop (writing, dj, rap e break dance) riescono a vivere di vita propria, hanno una loro struttura indipendente che permette loro di ritagliarsi uno spazio. Addirittura la break dance è diventata disciplina olimpica. Al tempo però era l’unione a fare la forza, nessuno aveva gambe forti per andare da solo. Per una parte dell’opinione pubblica anche i grandi nomi che vennero a Rimini, da Parigi piuttosto che da Berlino, erano comunque considerati alla stregua di vandali. Il problema è che in parte è ancora così, la forza espressiva del writing fa molta paura. C’è ancora molta strada da fare”.

Una menzione particolare chiaramente per Eron, all’epoca 20enne, che dai primi disegni “fuorilegge” sui muri di Rimini oggi è considerato all’unanimità un genio di fama mondiale.

Eron è senza dubbio uno dei più grandi artisti di questo secolo, a tutti gli effetti figlio di tutte le esperienze che racconto nel documentario. Come dicevo però l’arte del writing ancora oggi in Italia non sempre viene riconosciuta. Qui però parliamo di veri capolavori, con una carica poetica e messaggi così forti, spesso anche politici, che diventa davvero difficile non riconoscere nelle sue opere un patrimonio inestimabile”.

Figliola, ma alla fine il tuo lavoro ce l’ha una tesi di fondo? Cos’hai voluto raccontare con Booliron e cosa vorrebbe che uno spettatore, magari uno di quei ragazzi che oggi ascoltano distrattamente i nuovi rapper, si portasse a casa?

“Penso che Booliron restituisca la fotografia di quello che è stato un grande momento, a livello culturale ma anche di costume. Non c’è alcuna tesi preconcetta o messaggio subliminale, solo la testimonianza per chi vuole capire come in Italia è nato questo fenomeno e come la Romagna ne sia stata in qualche modo protagonista”.

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