di Deborah Lucchetti, Campagna Abiti Puliti

Il nostro pianeta è in fiamme ma la maggioranza di coloro che avrebbero il potere di cambiare le cose non lo fanno. Si vive, si lavora, ci si alimenta, si viaggia più o meno come se nulla fosse, di fatto continuando ad alimentare un modello di sviluppo estrattivo basato sull’uso di combustibili fossili. La moda ovviamente non fa eccezione, anzi rincara la dose con il suo modello di business basato su lavoro povero, prezzi bassi e sovrapproduzione, meglio noto come fast fashion, ulteriormente aggravato dalla così detta ultra-fast fashion ben rappresentata da brand digitali come Shein.

In poche parole, i modelli sono sfornati quasi giornalmente e venduti a prezzi molto bassi grazie alla collaborazione con noti influencer e all’analisi in tempo reale delle preferenze dei clienti. Qualcuno la chiama moda democratica, perché i prezzi bassi la rendono accessibile a vaste fasce della popolazione, sempre più povera, anche in Italia. Noi preferiamo chiamarla moda irresponsabile, perché i suoi alti impatti negativi contribuiscono significativamente al superamento dei limiti planetari e all’erosione delle basi sociali che rendono questo pianeta vivibile.

Prendiamo la crisi climatica. La moda è uno dei principali emettitori di gas serra con un contributo, secondo alcune stime, che arriva all’8% delle emissioni totali. Nel 2023 le emissioni di Co2 legate ai trasporti sono aumentate del 37%, raggiungendo il massimo storico: significa 2.000 kilotonnellate di CO2 equivalente (CO2e). Un disastro per il pianeta, nonostante le promesse delle COP (Conferenze delle Parti) con tutto il portato di accordi evidentemente insufficienti grazie alle instancabili lobby di gas e petrolio. Le cose peggiorano, anziché migliorare e la moda ci mette il suo zampino.

Lo aveva denunciato alcuni mesi fa Public Eye nel rapporto I voli dannosi del clima che racconta dati alla mano, le cattive abitudini del colosso spagnolo Inditex, casa madre del marchio Zara e campione mondiale per l’impiego del trasporto aereo, con 32 voli cargo con circa 100 tonnellate di vestiti a bordo per circa 1.600 movimenti aerei all’anno (rapporto 2022). Una scelta davvero incomprensibile, dato che i vestiti non sono né essenziali, né deperibili.

Inditex ha risposto sostenendo che dal 2018 le emissioni legate ai trasporti sono diminuite del 13% e, nel 2022, la compagnia ha ridotto il volume delle spedizioni aeree del 25%. Ma c’è il trucco! L’azienda ha semplicemente scelto l’anno in cui è capitato di trasportare quantità minori di merci per via aerea, il che è probabilmente dovuto principalmente alla scomparsa della sua importante attività russa in seguito all’invasione dell’Ucraina.

Per questo Campagna Abiti Puliti con Public Eye e altri gruppi attivisti hanno lanciato un appello agli azionisti del gruppo spagnolo in occasione della loro assemblea annuale tenutasi lo scorso 9 luglio a La Coruna, in Galizia. Appello cui si sono uniti più di 26mila persone in tutta Europa che chiedono di fermare la pratica folle di “sventolare vestiti” in tutto il mondo e limitare i danni che ne derivano sul clima. Sfortunatamente, non vi è alcun segno che l’azienda stia cambiando rotta.

Al contrario, nel suo ultimo Rapporto Annuale Inditex non ha presentato alcun piano per riportare la moda con i piedi per terra mentre continua a trasportare enormi volumi di articoli fast fashion in aereo. In particolare, la società civile chiede a Inditex: onestà e trasparenza riguardo alla sua impronta di carbonio e di pubblicare i dati sui voli cargo e sulle emissioni; di iniziare una rapida e completa eliminazione della moda aerotrasportata, di stabilire obiettivi chiari ed elaborare una strategia di eliminazione graduale; di riprogettare i sistemi logistici in modo che possano funzionare senza questi voli dannosi per il clima; di eliminare la pressione sui tempi di produzione dal modello di business adottato e pagare ai fornitori prezzi che coprano il costo di una produzione sostenibile, compresi i salari dignitosi.

In sintesi, gli attivisti chiedono a Inditex di utilizzare i profitti record (oltre 5 miliardi di euro di utili nel 2023), per finanziare una reale transizione verso alti standard di sostenibilità sociale e ambientale.

Richieste che alcuni investitori della rete europea Shareholders for Change, tramite Fondazione Finanza Etica, hanno raccolto e portato all’attenzione degli azionisti del gruppo spagnolo, formulando quesiti precisi e chiedendo un impegno chiaro con obiettivi e strategie trasparenti e verificabili per ridurre sensibilmente il trasporto aereo. Il CEO però ha fatto orecchie da mercante e non dato risposte di merito, rimandando invece ai rapporti annuali ben conosciuti, e valutati negativamente, sia dagli attivisti, sia dagli azionisti.

La strada per mettere l’azienda su una strada ecologicamente sostenibile è ancora lunga e il primo punto è senza dubbio la trasparenza. La società civile continuerà a fare pressione perché l’azienda cambi le sue politiche. Gli azionisti critici torneranno a La Coruna alla prossima assemblea per chiedere conto degli avanzamenti.

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