Il ciclismo era morto. È risorto grazie al suo messia: Tadej Pogacar da Komenda, Slovenia. Il miracolo definitivo lo consacra tra i grandi della storia dello sport: Giro d’Italia e Tour de France nello stesso anno. L’apice di uno spettacolo cominciato il 19 settembre 2020, quando allora 21enne ribaltò il Tour nella cronometro di La Planche des Belles Filles. Quella fu battezzata come la nascita di una leggenda, di un dominatore incontrastabile. In realtà era l’alba di un nuovo ciclismo. Una disciplina in declino, spazzata via dagli scandali del doping che hanno intossicato un’intera generazione. Incapace di offrire volti, duelli, emozioni: insomma, tremendamente impopolare. Poi è arrivato Pogacar, capostipite di una nuova generazione di corridori che hanno proiettato il ciclismo nel futuro interpretando le corse come si faceva nel passato. Vingegaard, Evenepoel, Van der Poel, Van Aert – solo per citare i più meritevoli e vittoriosi – insieme a Pogacar hanno riportato lo spettacolo sulle strade. Hanno permesso al ciclismo di tornare epico. Le grandi imprese dello sloveno in maglia gialla sono già pietre miliari, coinvolgono nuovi o vecchi appassionati. Con un’avvertenza: se dovesse emergere nuovamente qualche scandalo a minare la pulizia di queste prestazioni, per le due ruote non ci sarebbe più alcuna possibilità. Il ciclismo verrebbe nuovamente seppellito, questa volta definitivamente.
Quando il bambino Tadej si arrabbiava
“Nairo Quintana lo guardavo in televisione e seguivo i suoi duelli con Chris Froome. Mi ricordo che mi arrabbiavo perché lui non attaccava mai a meno dieci chilometri dalla fine e lo faceva sempre più avanti”. Queste parole pronunciate da Pogacar dopo aver vinto la tappa di Livigno al Giro 2024 racchiudono nella loro semplicità la differenza tra il ciclismo a cui si è assistito nei primi due decenni del nuovo millennio e quello odierno. Nonostante ci siano i computer, i dati in tempo reale, i calcoli sul wattaggio e le radioline, Pogacar e i suoi rivali corrono con un solo obiettivo in testa: andare all’attacco, ogni qual volta è possibile. L’iper-tatticismo ha lasciato spazio agli attacchi da lontano, ai duelli uno contro uno lungo intere salite e discese. È il sale di questo sport, la summa del suo paradosso: la bici richiede massacranti allenamenti e una metodica abnegazione al sacrificio, ma in corsa diventa guizzo, intuizione, coraggio.
Il doping e poi il vuoto
Questo tipo di ciclismo, leggendario e corsaro, era scomparso insieme al Pirata per definizione, Marco Pantani. Le ombre e i misteri, il doping che ha intossicato intere edizioni del Tour de France. Anni in cui ogni successo era avvelenato dai sospetti e dai dubbi. Per non parlare poi dell’era di Lance Armstrong: successi finti, per di più noiosi. Dal 2010 in avanti, il ciclismo ha provato faticosamente a ripulirsi. Ci sono stati altri scandali, altri campioni squalificati e poi reintegrati. Un processo lento, con qualche battuta d’arresto, che però ha contribuito a rendere le corse nuovamente credibili. Il problema semmai è diventato un altro: l’assenza di campioni e di duelli appassionanti. Tranne qualche eccezione (merita di essere menzionato Vincenzo Nibali, che ad esempio ha nel suo palmares i Grandi Giri ma pure una Milano-Sanremo, impresa ancora non riuscita a Pogacar) non ci sono stati ciclisti in grado di appassionare le folle per le loro azioni fuori dagli schemi. Per diversi anni al Tour ha dominato il Team Sky, una trasposizione in salsa iper-tecnologica della Us Postal Service. Tutti in fila a tirare e a scortare il capitano, principalmente Chris Froome, fino al traguardo. Soprattutto, non ci sono stati i duelli, che sono da sempre il sale del ciclismo, il primo ingrediente necessario per trasformare la mera cronaca di una corsa in un racconto epico. Dai tempi di Coppi e Bartali, fino a Merckx e Gimondi. Ed ecco che tornano le parole di Pogacar su Nairo Quintana: il colombiano che doveva diventare l’alter ego di Froome e che invece se ne stava lì quieto a conservare il suo secondo gradino del podio. Nulla di più distante da quel che accade oggi.
Il duello con Vingegaard
Pogacar e Vingegaard hanno messo in piedi al Tour una rivalità da antologia, che sembra uscita dalla pena di un autore di bestseller. Sbarazzino e sfrontato lo sloveno, glaciale e imperscrutabile il danese. Dopo il 2020, Pogacar ha rivinto la Grande Boucle nel 2021 davanti a Vingegaard. Poi il rivale lo ha battuto nelle edizioni 2022 e 2023. Quest’anno la grande rivincita, che riporta avanti lo sloveno nel testa a testa. Pogacar inoltre ha vinto 16 tappe in Francia, Vingegaard 4. Sempre all’arrembaggio, a far scorribande dai Pirenei alle Alpi, a sfidarsi per trovare il punto debole dell’avversario. Si sfidano in alta montagna, sugli arrivi mossi, in discesa, a cronometro: ogni terreno è buono per lo scontro, senza sconti e senza calcoli. Insieme hanno cannibalizzato praticamente gli ultimi quattro Tour de France, questo compreso. Il loro testa a testa è qualcosa di alieno rispetto al resto della carovana, che si muove per raggranellare le briciole: volate, fughe, qualche altra vittoria di tappa. La lotta per la maglia gialla da 4 anni è un affare per loro, gli ipotetici rivali viaggiano a 10 minuti di ritardo. L’unico che sembra lentamente riuscire ad avvicinarsi è Evenepoel, chissà se riuscirà mai a batterli.
La bellezza dell’impresa (e i timori)
È la bellezza del ciclismo che stiamo vivendo, che ha trovato in questo Pogacar versione 2024 la sua sublimazione. La tecnologia avanzata applicata alle biciclette, la digitalizzazione, la cura scientifica del corpo e dell’allenamento: sono i fattori che hanno portato questa nuova generazione di ciclisti a mettere sulla strada prestazioni strabilianti. Aiutati anche da percorsi più brevi e più votati allo spettacolo. Il ciclismo proprio grazie all’ultra-modernità – e a questi campioni – ha inaspettatamente riscoperto la bellezza delle sue origini. E può oggi finalmente ammirare un campione in grado di vincere nuovamente Giro e Tour nello stesso anno: l’impresa per eccellenza. Quella che riesce solo ai grandissimi: Merckx (4 volte), Hinault (3 volte), Coppi, Anquetil, Indurain (2 volte) Roche e Pantani. Ecco, Pogacar sa emozionare come il Pirata. E la speranza è che dietro alla grande bellezza di Pogacar ci sia questo e nient’altro. Durante questo Tour si è parlato anche del “rebreathing” e delle implicazioni potenzialmente dopanti che potrebbe avere un suo utilizzo non etico. Ad oggi, semplicemente, non ci sono gli strumenti per capire se le performance di Pogacar (così come dei suoi rivali) siano alterate. Scoprirlo tra qualche anno, questo è certo, farebbe calare il sipario sul ciclismo e sulla bici. Per sempre.