Leggo sul Fatto che “il pallone è per ricchi” e che “per far giocare un figlio le famiglie spendono dagli 800 ai 1300 euro”. Sotto casa mia vedo ragazzini che giocano per strada, sono in gran parte extracomunitari e corrono sul cemento. E come ai miei tempi la porta di calcio è un portone o immaginata tra due magliette.

Un tempo il “social” era l’agorà, la piazza, la parrocchia, la banda del paese, i campi sportivi, insomma tutti quei luoghi di socializzazione dove le attività umane ludico-ricreative, sociali, educative, culturali e sportive, prendevano forma e sostanza corporea, dove il tempo libero era esperienza con gli altri in presenza. Lo era per gli adolescenti e i giovani, ma anche per gli adulti. Oggi questi luoghi d’incontro e di vita sociale sono vissuti al minimo, le nostre esperienze smaterializzate, liquefatte nel variegato mondo del virtuale che sta triturando le relazioni corporee delle persone e spesso la loro salute mentale.

Ansia, depressione, disturbi alimentari, bullismo e baby gang, identità sessuale e isolamento, sono infatti le parole spesso utilizzate per raccontare l’esistenza di nuove generazioni immerse in una realtà ossessionata dalla tecnologia virtuale e sempre più anomica ed alienata. Openpolis riporta che in particolare dopo la pandemia sarebbero mezzo milione i minori a rischio dipendenza da internet, 370 mila gli adolescenti alle prese con dipendenza da cibo e disturbi alimentari con un continuo aumento di ricoveri per queste patologie. Sarebbero 66 mila i ragazzi tra 11 e 17 anni con tendenza all’isolamento sociale per abbuffata da virtuale.

Insomma se i luoghi di aggregazione e sport in presenza, comunali compresi, ormai costano e non tutti se li possono permettere, la facile e parossistica diffusione delle tecnologie e il loro definitivo processo di introiezione, rappresenta per molti giovani “il luogo” di aggregazione alternativo e fascinatorio.

In sostanza i ragazzi e le ragazze hanno costruito molte delle loro abitudini quotidiane attorno ai dispositivi virtuali di cui fanno un uso ossessivo e in barba alle regole inventate dagli adulti e messe lì giusto per darsi una lavata di coscienza: per esempio, il divieto di iscrizione ad alcuni social per i ragazzi minori di 13 anni è violato da 2 su 3 di loro. L’86% per cento dei ragazzi entro i 18 anni fa parte di una community, che tradotto significa illudersi di frequentare un gruppo senza di fatto essere presente e ancor di più sono coloro che possiedono un profilo social senza socializzazione che non sia filtrata dallo schermo del Pc o dello smartphone.

Tutto normale? A quanto pare sì perché ormai le tecnologie digitali e virtuali godono di inarrestabile ascesa e persino coloro che dovrebbero vigilare sulle degenerazioni psicopatologiche del mezzo (educatori, insegnanti ecc.) sembrano arresi ad una deriva ipnotica di massa, dove gli smartphone sono assurti a babysitter per i piccoli e ansiolitici per i più grandi. L’85% degli adolescenti tra gli 11 e i 17 anni usa sistematicamente il telefonino e il 72% naviga su Internet trascorrendo tutti i giorni dalle tre alle sei ore connessi, palleggiando la loro mente tra un sito e l’altro accumulando una quantità di informazioni impossibili da processare, nella migliore delle ipotesi delle pseudo informazioni scambiate per conoscenze.

Eppure un qualsiasi manuale di psicologia dello sviluppo sottolinea come in particolare l’infanzia, l’adolescenza e la prima giovinezza sono tempo di vita in cui la relazione e la socializzazione in presenza sono decisive per la costruzione identitaria. E’ infatti la presenza fisica degli altri che rende questa esperienza fattiva all’interno di precisi confini e limiti temporali e spaziali, requisiti indispensabili per rendere “umano” il rapporto (esattamente il contrario del virtuale che rende tutto illimitato), per modulare insicurezze e paure in un campo di realtà che mette alla prova perché si nutre di vita e non della sua rappresentazione ideale ed irraggiungibile.

Parlare con gli amici, l’essere compresi e misurarsi con i conflitti, essere sostenuti e sostenere, sono esperienze non virtualizzabili perché i processi sottesi sono aspetti centrali dello sviluppo e pressoché assenti in un ambiente artificiale, incapace di riprodurre il senso profondo della relazione umana in presenza, rischio compreso e necessario. Internet, i social, le community, è noto, tendono ad idealizzare l’esistenza. L’esistenza, imperfetta per definizione, assume sempre più spesso le forme vuote del corpo perfetto, della trasgressione senza conseguenze (spesso molto gravi, invece), le sole forme dell’abito, del trucco, dell’oggetto di moda vengono integrate nell’identità come indispensabili per sentirsi desiderati e, in fondo, amati. Un inganno scandaloso che lascia milioni di adolescenti inermi e indifesi di fronte a modelli trasmessi loro in modo tanto subliminale quanto cinico e che investe il loro stesso corpo alimentando dismorfofobia. Un esempio? Gli interventi chirurgici estetici sui minori sono negli ultimi anni cresciuti del 33%, quasi 700 mila adolescenti italiani si sono fatti ritoccare il loro corpo.

I centri di salute mentale, si diceva, sono pieni di adolescenti alle prese con problematiche inedite fino a qualche anno fa, con comportamenti antisociali, impulsivi e privi di empatia, uso disinvolto di psicofarmaci e intolleranti a minime forme di disciplina. In Lombardia sono 10.000 gli adolescenti che avrebbero bisogno di ricovero specialistico ma solo la metà di loro trova adeguata assistenza. Secondo uno studio dell’Università di Pavia e citato da Polis si assiste ad “un aumento dei ragazzi che presentano ideazione suicidaria o comportamenti autolesivi accolti in Pronto soccorso e ricoverati”, nel 2022 più del 186% se comparato con il 2015, e guardandomi intorno ci giurerei che il dato è in crescita. C’è poi il problema della mancata continuità delle cure (quando ci sono) tra ospedale e il territorio sociale e comunitario. Ma, vien da chiedersi, quale “territorio”?

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