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Joe Biden ancora 182 giorni alla Casa Bianca: il presidente resta in sella ma è indebolito. E rischia di affossare la corsa di Kamala Harris

Domenica Andrew Bates professava tranquillità. “Non vede l’ora di concludere il suo mandato“, ha detto il portavoce della Casa Bianca poche ore dopo che il suo capo aveva messo fine alla sua corsa presidenziale assicurando però di voler restare “concentrato tutte le sue energie sui suoi doveri di presidente”. Al momento, quindi, Joe Biden resta in sella, ma le ombre che hanno dominato fino a domenica la campagna elettorale ora si allungano sulle prossime settimane: riuscirà a completare il suo quarto anno alla guida degli Stati Uniti? In quali condizioni di salute? A quale prezzo per il Partito democratico, che ora dovrà tentare di portare Kamala Harris a una difficile vittoria contro Donald Trump?

Biden ha rinunciato alla rielezione solo dopo aver negato per mesi le evidenti difficoltà fisiche e cognitive poi emerse con chiarezza durante il dibattito del 27 giugno. E ora il clima in cui il presidente reso “anatra zoppa” dalla sua stessa salute dovrà trascorrere i suoi ultimi mesi da Commander in chief sarà incandescente. A darne la temperatura sono state le parole pronunciate dal primo repubblicano a parlare dopo l’annuncio del passo indietro: “Se Joe Biden non è adatto a candidarsi alla presidenza, non è adatto a fare il presidente – ha detto lo speaker del Grand Old Party alla Camera Mike Johnson -. Dovrebbe dimettersi immediatamente”.

I suoi respingono gli attacchi ma le preoccupazioni per la tenuta di Sleepy Joe, 81 anni, sono evidenti. Funzionari, membri del Congresso e donatori hanno lasciato trapelare che negli ultimi mesi il presidente è sembrato più lento, a tratti disorientato, durante i comizi ha perso spesso il filo del discorso, mentre i collaboratori si sono sempre affrettati a sostenere che se il corpo ha denunciato qualche cedimento la mente non ha perso colpi. Ora al termine del mandato mancano 182 giorni. Per alcuni esperti portarlo a termine non è un’impresa proibitiva. “La presidenza non è un one man show“, ha detto al Washington Post Ezekiel Emanuel, bioeticista dell’Università della Pennsylvania, consulente dell’amministrazione Biden in tema di Covid e questioni sanitarie. Quella americana “è un’amministrazione che ha il presidente come capo e decisore ultimo – ha spiegato Emanuel – e ha un team molto efficace attorno a sé che conosce, e loro conoscono lui”.

Secondo altri, poi, una cosa è condurre una campagna elettorale per le presidenziali – in cui il candidato è chiamato a trascinare gli elettori, interagire con i donatori e tenere discorsi elettorali in tutto lo sterminato territorio americano – e un’altra è guidare la Casa Bianca per le ultime settimane di mandato. “La decisione del presidente di porre fine alla sua candidatura è legata allo svolgimento dei suoi doveri nei prossimi 4 anni e mezzo”, ha spiegato David Grabowski, docente alla Harvard Medical School specializzato nello studio dell’invecchiamento, e “ciò è diverso dalla sua idoneità a servire oggi fino alla fine del mandato. Le due cose devono essere valutate in maniera indipendente”.

Intanto però Biden, che è il più anziano presidente della storia del Paese, viene preservato il più possibile. Non sarà lui ma sua moglie Jill a guidare la delegazione Usa alla cerimonia inaugurale dei Giochi Olimpici di Parigi il 26 luglio. Il second gentlemanDouglas Emhoff, marito di Kamala Harris – presenzierà invece all’evento di chiusura l’11 agosto. Domani poi a Washington ci sarà il premier israeliano Benjamin Netanyahu, ma il Covid al quale è risultato positivo mercoledì 17 ha portato l’entourage del presidente a non calendarizzare nuovi impegni almeno fino al 28 luglio. E il prossimo evento internazionale già fissato è il G20 in Brasile del 18 e 19 novembre, quando i giochi per la Casa Bianca saranno già fatti.

Nel frattempo la più grande potenza del mondo continuerà ad aver bisogno di un leader, specie in uno scenario geopolitico reso instabile da due guerre. Il primo dossier sulla scrivania dello Studio Ovale resta l’Ucraina: gli Stati Uniti hanno inviato oltre 52 miliardi di dollari di assistenza per le truppe di Volodymyr Zelensky, hanno imposto sanzioni contro Vladimir Putin e i suoi sodali e il continuo sostegno di Washington a Kiev contro l’aggressione della Russia ha ricompattato l’Europa e la Nato, ma fine del conflitto è ancora di là da venire.

Così come appare lontana la fine delle operazioni militari avviate da Israele nella Striscia di Gaza dopo gli attacchi del 7 ottobre. All’indomani della strage di 1.200 civili Biden ha assicurato sostegno al governo Netanyahu. Ma con il passare dei mesi, l’uccisione di quasi 40mila palestinesi e milioni di sfollati, la posizione di Washington è cambiata e Biden è finito in un limbo in cui è stato aspramente criticato per la poca incisività dimostrata ed è accusato dai musulmani d’America di essere complice di un genocidio.

Poi c’è la Cina. Pechino ha annunciato sanzioni contro le imprese Usa che vendono armi a Taiwan e interrotto i colloqui bilaterali sul controllo degli armamenti, dando il la a quella che, in caso di una vittoria di Trump il 5 novembre, si prefigurerebbe come una nuova guerra dei dazi.

Sul fronte interno sono due i principali dossier aperti. Da una parte, il Commander in chief è riuscito a rinforzare l’economia e le finanze delle famiglie, creando 14,8 milioni di posti di lavoro e tenendo la disoccupazione al di sotto del 4% per il periodo più lungo dagli anni ’60, anche se l’impennata dell’inflazione ha annullato i guadagni di milioni di lavoratori. Dall’’altra le riforme sull’immigrazione – dossier affidato a inizio mandato alla vice Harris – stanno fallendo e i flussi ai confini meridionali hanno raggiunto la media record di 2 mila ingressi al giorno.

In questo contesto i Repubblicani avranno gioco facile a continuare a sparare sul presidente e sulla sua vice impegnata in una campagna elettorale tutta in salita. E un presidente indebolito, nel fisico e nell’immagine, rischia di zavorrare la corsa del suo partito. Per questo c’è chi chiede a Washington di dissipare tutti i dubbi sulla sua tenuta. Jonathan Reiner, cardiologo e professore di medicina e chirurgia alla George Washington School of Medicine and Health Sciences, ha spiegato al WP: “Sarebbe appropriato che il team medico della Casa Bianca rilasciasse una dichiarazione formale che attestasse la capacità presidenziale” del vecchio Joe.