di Marco Pozzi
All’ultima partita della sua carriera, un giornalista chiede a Kareem Abdul-Jabbar, famosissimo cestista americano, quale fosse il giocatore più forte con cui avesse giocato; ci si aspetta che menzioni campioni conosciuti da tutti, ma lui risponde Earl “The Goat” Manigault, che era un giocatore formidabile nei campetti all’aperto, che saltando toglieva le monetine da sopra i tabelloni, ma che non era mai riuscito a giocare nelle competizioni più prestigiose. Neanche una partita.
Ho scoperto questa storia quando mi hanno suggerito di guardare il documentario “Rebound” sulla sua vita. Le persone, specialmente i tifosi, dicono di ammirare il nostro talento, che sovente collegano a un dono avuto alla nascita, come evento fortunato. Noi “campioni” – come ci chiamano – ripetiamo che quand’eravamo giovani intorno avevamo spesso atleti più forti e talentuosi di noi, ma che la differenza l’avrebbero fatta la determinazione e la costanza. Molto più del talento e dell’atletismo, sono decisivi determinazione e costanza. E lo sport è un modellino della vita, dove esistono talenti sprecati nel peggiore dei modi e talenti potenziati nei modi più geniali.
Possiamo essere noi stessi i rivali più insuperabili, non solo un avversario sul campo.
A volte semplicemente si esce sconfitti dalla propria pigrizia, per non volersi staccare dal bar con gli amici, dai genitori, da fidanzati e fidanzate; anche questi cari a volte possono essere rivali, e forse i più insidiosi, perché sono una parte di noi. Si esce sconfitti da chi parla dello sport come hobby e passatempo, ignorando che nel profondo quello può essere una passione esistenziale, totalmente vitale. In televisione si vede solo la prestazione dello sportivo, tutto sembra facile, ma non si vedono le ore e ore di allenamento, la dedizione assoluta, l’impegno di chi arriva alla celebrità.
Si può essere costretti a lottare contro se stessi subendo ansie, nausee, paure, insonnie, emicranie, attacchi di panico, senza capirne il motivo; ragazzi, adolescenti, bambini che lottano contro malesseri e disagi, quelli che sono di tutti, magari nel mezzo a tensioni in famiglia, divorzi dolorosi, violenze, povertà, emarginazione, droghe, alcool… da cui sembra non si sia una vita d’uscita che invece c’è, e se si migliora nello sport allora si migliora anche nella vita, nella collettività, insieme come compagni di una stessa squadra.
Un aforisma sportivo afferma: “Il lavoro vince sul talento, se il talento non lavora abbastanza”. E questo dico ai tanti ragazzi che hanno appena cominciato uno sport, o che stanno arrivando ad alti livelli, o magari ci sono già. Nello sport, quando lo si vive intensamente, si assorbe una forma di essere che si manterrà l’intera vita: l’agonismo, la competizione, la voglia di fidarsi dei compagni; la capacità di ammirare i migliori, di imparare da chi è più bravo di noi; il desiderio di sfidare l’eccellenza; la consapevolezza di doversi allenare per ottenere risultati, i sacrifici per perfezionarsi, più che mai indispensabile oggi, con così tanti stimoli e tante distrazioni che è difficile capire cosa desiderare davvero.
A questo sto pensando mentre preparo i bagagli per Parigi. Per le Olimpiadi. Il sogno di ogni sportivo. Il sogno fin da bambino. Ma anche chi non avrà l’onore immenso di partecipare ai Giochi può vivere lo sport come metodo di esistenza non solo in pista o in palestra, ma nella vita, come genitori, fidanzati, cittadini, amici, lavoratori. Sarà un modo per affrontare i successi e gli insuccessi, i lutti e la malattia. Come i “campioni” che vogliono migliorare anche se sono già fortissimi, nel ruolo di medici, negozianti, astronauti, vagabondi o chissà cos’altro, ognuno non deve credere a chi dice che si possono ottenere grandi risultati comodi comodi, senza fatica. Non deve credere che sia una fortuna innata a rendere campioni.
Quindi, quando facciamo sport, facciamolo con costanza, con dedizione, con intelligenza, con precisione; abbiamo un’enorme responsabilità verso noi stessi e verso la collettività. A presto a tutti, ci vediamo a Parigi!
Il testo ripropone parte dell’episodio 9 del podcast Il respiro della palla