Poco prima dell’inizio della pomeridiana di Suffs, un musical di Broadway sulle suffragette, prodotto tra gli altri da Hillary Clinton, il pubblico in sala ha cominciato a invocare, prima debolmente, poi con sempre maggiore convinzione, un nome: “Kamala! Kamala!”. Il mondo democratico ha accolto con favore la candidatura di Kamala Harris alla Casa Bianca. Nelle manifestazioni di sostegno per la vice presidente c’è sicuramente il sospiro di sollievo che gran parte dei dem ha tirato dopo il ritiro di Joe Biden. È vero che i sondaggi non sono particolarmente favorevoli a Harris. L’auspicio è che possano migliorare, una volta che la vice presidente sarà la candidata ufficiale e non più un’eventualità lontana. Il senso che qualcosa è cambiato è stato comunque chiaro già nella tarda serata di domenica, quando ActBlue, il comitato di azione politica dem, ha annunciato che la campagna democratica ha raccolto 60 milioni di dollari in contributi elettorali nel giro di poche ore, dopo l’annuncio del ritiro di Biden.

Va subito detta una cosa: la nomination di Harris non è a questo punto certa, ma comunque molto probabile. Nelle ultime ore, un numero impressionante di democratici ha preso posizione a suo favore: da Joe e Jill Biden ai coniugi Clinton ai leader del Senato ai progressisti del partito, tra questi Elizabeth Warren e Pramila Jayapal. Non sembrano entusiasti i finanziatori democratici che avrebbero preferito procedere con la candidatura di un governatore: Josh Shapiro della Pennsylvania, Gavin Newsom della California, Gretchen Whitmer del Michigan, J. B. Pritzker dell’Illinois. Ma i grandi donatori hanno già avuto un ruolo fondamentale nell’allontanamento di Biden e non sarebbe buona cosa mostrare un loro ruolo così invasivo nelle scelte politiche del partito. Sono poi gli stessi governatori, in modi più o meno sfumati, ad appoggiare la candidatura di Harris (con l’eccezione di Pritzker, che però è da sempre molto legato a Biden).

Nella scelta di Harris c’è una chiarissima ragione politica. I dem non possono arrivare alla Convention di Chicago ad agosto mostrandosi spaccati sulla scelta più importante, quella del presidente. Significherebbe offrire all’America una pessima immagine, soprattutto di fronte allo spettacolo di ritrovata unità dei repubblicani a Milwaukee. Sono però anche ragioni procedurali a rendere (quasi) inevitabile la nomina di Harris. Con il voto praticamente all’unanimità per Biden alle primarie, i 4600 delegati si erano impegnati a votare per il presidente. Dopo l’abbandono, i delegati tornano liberi. Possono votare chi vogliono. È però improbabile che lo possano davvero fare. Solo il Democratic National Committee e la campagna di Biden hanno l’elenco completo dei delegati, e non lo rendono pubblico. Chi volesse proporre la propria candidatura si troverebbe quindi di fronte un problema banale, ma in realtà insormontabile. Non saprebbe come contattare i delegati per ottenerne il voto. C’è poi anche il tema finanziario: Joe Biden lascia in eredità decine di milioni di dollari per la campagna. Su quei soldi potrebbe scatenarsi una feroce guerra legale tra i candidati. La cosa non riguarda però Kamala Harris. La campagna presidenziale democratica era infatti rappresentata dal ticket “Biden Harris”. Fuori Biden, il controllo dei finanziamenti passa naturalmente alla sua vice.

Oltre le questioni tecniche e amministrative, quello che si cerca di valutare è il profilo della candidata e le possibilità di vittoria. Ci sono certamente elementi positivi nella sua nomination. Kamala Harris è anzitutto una grande storia americana: quella di una ragazza figlia di una madre indiana e di un padre giamaicano che si fa strada nella vita fino a diventare la prima donna nera e di origini asiatiche candidata alla presidenza degli Stati Uniti. Nel suo percorso umano ci sono tutti gli elementi retorici del sogno americano. Lavorare duro. Non darsi mai per vinti. Essere in grado di farcela, non importa quali siano le condizioni di partenza. La storia di Harris, capace di superare barriere razziali e di genere – come procuratrice, attorney general della California, senatrice e infine vice presidente – ha poi tutti gli elementi per mobilitare settori di elettorato ormai disincantati nei confronti di Biden. Le donne. Le minoranze. I giovani. I progressisti.

Anche il profilo politico di Harris è, in potenza, significativo. La vice presidente è una pragmatica, priva di una forte base ideologica, di una “filosofia” ben delineata. Le sue posizioni possono genericamente essere definite di centro-sinistra. Harris si è battuta per i diritti degli omosessuali. Ha difeso il valore dell’immigrazione. Di recente è diventata la voce dell’amministrazione in tema di diritti riproduttivi. Al tempo stesso, da attorney general della California, Harris ha mostrato la tendenza a un inasprimento dell’azione giudiziaria, in particolare contro i piccoli reati per droga e quelli dei colletti bianchi. La sua fisionomia è insomma quella di una moderata, sempre rispettosa degli equilibri di potere della leadership democratica. Non a caso, dopo essere stata la più spietata avversaria di Joe Biden nelle primarie 2020 – arrivò praticamente a dargli del razzista – ne è diventata la rispettosissima vice. Il suo pragmatismo potrebbe giocare a suo favore anche nello scontro con due campioni dell’ideologia di destra più radicale, come Trump e il suo vice J.D.Vance.

Ci sono però altrettanti elementi che fanno ritenere che Harris non sia la candidata ideale. La sua campagna elettorale alle primarie 2020 si è rivelata un disastro. I suoi primi tre anni come vice di Biden sono stati un capolavoro di anonimato. Inevitabilmente, come vice di Biden, Harris verrà poi attaccata dalla propaganda repubblicana per i risultati di questa amministrazione in tema di inflazione, immigrazione, politica estera fallimentare. I repubblicani hanno poi coniato per lei una carica: quella di border czar, responsabile della politica al confine. Non è così. Harris gestisce per contro di Biden i rapporti con quei Paesi da cui arrivano i migranti. Ovviamente, la definizione di “zarina del confine” serve ai repubblicani per accusarla di incapacità di fronte all’“invasione” degli stranieri.

La nota più dolente per Harris sono però i sondaggi. La vice non appare meglio posizionata rispetto al suo presidente nei confronti di Donald Trump. Una serie di sondaggi effettuati tra febbraio 2023 e giugno 2024 mostra una cosa non positiva per Harris. Biden ha sempre avuto numeri migliori rispetto alla sua vice nella sfida con Trump. È solo dopo la disastrosa prova del democratico nel confronto TV con Trump che Harris si riprende. In un sondaggio CNN, realizzato due giorni dopo il confronto TV, Harris è, a livello di voto nazionale, due punti dietro Trump. Biden è indietro di sei punti. Harris comunque perde in tutti gli Swing States, gli Stati in bilico. E gode di una popolarità – anzi meglio, di una impopolarità – quasi pari a quella di Biden. Una ricerca Economist/YouGov mostra che il 54 per cento degli americani non ama Kamala Harris. Biden non è amato dal 58 per cento.

È vero che i suoi sostenitori fanno notare che la campagna di Harris inizia ora, e che gli unici dati attendibili saranno quelli presi con lei come candidata ufficiale. È anche vero che la corsa di Harris appare tutta in salita, considerato lo sconforto dei democratici nelle ultime settimane e l’entusiasmo che domina il campo repubblicano. Non sarà facile, per Kamala Harris, battere Donald Trump, e lo sanno anzitutto i democratici, costretti a fare una cosa mai successa nella storia degli Stati Uniti: cambiare un candidato alla presidenza, per manifesta inadeguatezza, a ridosso del voto. Intanto, la sfida che si sta per delineare tra Trump e Harris si arricchisce di un elemento ulteriore, e un po’ paradossale. La donna che da procuratrice ha passato buona parte del suo tempo a perseguire malfattori, o presunti tali, si scontra nella sfida per la Casa Bianca con l’uomo che ha passato buona parte dei suoi ultimi anni a difendersi dall’accusa di crimini, o presunti tali.

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