Avvenuto ciò che era ineluttabile, cioè il ritiro di Biden dalla corsa alla Casa Bianca, la campagna elettorale per le presidenziali americane comincia ora. Si riparte da zero. Gli eventi si susseguono con una concitazione senza precedenti. Perfino l’atto clamoroso e storico – un candidato finito nel mirino di un killer e sfuggito all’assassinio – sembra un fatto ormai remoto.
Dopo mesi di voci e pressioni esplicite, Biden alla fine si è piegato all’idea di non essere in grado di comandare dallo Studio Ovale per altri quattro anni. Se è scandaloso che i democratici abbiano per mesi censurato il declino cognitivo del presidente (rimarrà però in carica fino al 20 gennaio 2025: non ha intenzione di dimettersi) decisivi per scegliere l’abbandono sono stati due fattori: i sondaggi e i potenti del partito.
Inequivocabile il verdetto di tutte le indagini di opinione post dibattito tv: Biden era destinato a subire una schiacciante sconfitta a novembre contro Donald Trump, con il repubblicano in vantaggio di ben 7 punti, nei più recenti sondaggi. Poi c’è il ruolo giocato dalla cupola del partito democratico. Prima hanno pensato che Joe potesse vincere, quando hanno capito che avrebbe perso, far fuori il presidente è sembrata (giustamente) l’unica carta giocabile per avere almeno una vaga chance di fronteggiare Trump, sempre più forte e “divinizzato” dalla sua base. Così, dopo giorni di tensione, ad orchestrare il colpetto di Stato interno ai dem per la cacciata di Biden è stata la triade dei big: Nancy Pelosi, Barack Obama e Chuck Schumer.
Saranno loro la cabina di regia che ora condurrà alla Convention democratica di Chicago del 19 agosto. Cosa può accadere? Il partito in teoria dovrebbe ricompattarsi attorno a Kamala Harris, indicata dal suo capo (mentre Obama è rimasto in silenzio). In questo scenario, i democratici eviterebbero una battaglia interna e una caotica Convention “aperta” che metterebbe a nudo le spaccature ideologiche tra centristi e liberal di sinistra.
Attenzione: è stato Biden a scegliere questa opzione. Perché se si fosse dimesso dall’incarico di Commander in Chief, contestualmente all’abbandono della campagna elettorale, Kamala sarebbe diventata presidente – la prima presidente donna d’America – e quindi automaticamente candidata per il partito democratico a novembre. Così non è avvenuto. Per cui lo scenario è sempre più mobile, i giochi sono tutti da fare. Le sorprese non mancheranno, nella lotta per la conquista del massimo potere politico al mondo.
Nell’altra fazione, Trump ha già detto che per lui sarà ancora più facile vincere con Harris sua sfidante. E non sbaglia, conoscendo le inclinazioni dell’elettorato medio americano, visto che Kamala Harris è nera, indiana, donna e pure avvocato (tutte categorie in alto nella black list di “pancia percepita” da decine di milioni di trumpiani del MAGA).
Harris parte comunque nettamente favorita rispetto ad altri potenziali sfidanti del suo partito (per sostituire Biden si preparavano a bordo campo i governatori della California e del Michigan, Gavin Newsom e Gretchen Whitmer ma, pensando a una loro possibile nomination nel 2028, hanno già deciso di appoggiare la candidatura Harris). Così lei non ha perso tempo. E ha già iniziato a valutare a chi dare il ruolo di vicepresidente nel suo ticket.
Tra i nomi che circolano, ci sono possibili accoppiate con dem moderati di Stati “in bilico”, come il governatore della Pennsylvania Josh Shapiro (ebreo, come lo è il marito della Harris; elementi che, una volta di più, conoscendo le inclinazioni dell’elettorato medio americano, rafforzano la base elettorale MAGA invece di portare voti ai democratici); il governatore del Kentucky, Andy Beshear; o il senatore Mark Kelly dell’Arizona. Tutti in grado di fare dell’età (giovani, mentre Trump è il candidato alla Presidenza più vecchio di sempre) e del sì all’aborto i due argomenti chiave di una campagna elettorale rivista e corretta.
Kamala dovrà lavorare duramente per conquistare la candidatura a Chicago, dato che Biden si è ritirato prima della sua nomina formale alla Convenzione Nazionale Democratica del mese prossimo. Parteciperanno 3.937 delegati (più del Comitato centrale del Partito Comunista in Cina) e ne servono 1.976 per ottenere la nomination. Biden aveva già il sostegno del 99% dei delegati promessi. Ora che si è ritirato, tutti sono liberi di votare per chiunque si presenti. Molto probabilmente, sarà Kamala Harris.
Decisivi, come sempre in America, saranno i soldi. Sui delegati peserà il flusso di denaro fatto affluire dai grandi ‘donors’ democratici (per esempio George e Alex Soros hanno annunciato che sosterranno Harris). Sarà l’effettiva entità dei finanziamenti nei prossimi 10-15 giorni a decidere il nome su cui si coalizzerà il partito. E siccome la campagna Biden-Harris ha già raccolto 270 milioni di dollari nel secondo trimestre, con Harris candidata questi soldi rimarrebbero a disposizione della campagna elettorale democratica. Un altro indizio positivo per la vicepresidente: secondo ActBlue, un’importante piattaforma dem di raccolta fondi online, dai piccoli elettori sono stati raccolti quasi 47 milioni di dollari nelle poche ore da quando Harris è scesa in campo.
Dettagli elettorali e tecnici a parte, chiunque segua le vicende politiche americane è consapevole che siamo in un territorio inesplorato. Senza retorica, test senza precedenti aspettano la democrazia degli Stati Uniti. L’America è nel pieno di una fase di turbolenza politica e instabilità come non si vedevano dagli anni 60, che ne sottolinea l’evidente accelerato declino.
Il caos è destinato a regnare sovrano. Mentre i repubblicani – a partire dal ‘delfino’ di Trump e nuovo profeta del MAGA, il vicepresidente designato J.D. Vance – chiedono che Biden si dimetta adesso dalla Casa Bianca e che la vicepresidente Harris sia ritenuta ‘complice’ per aver nascosto le sue condizioni di salute, i democratici hanno quattro settimane per fare un reboot completo della loro campagna elettorale. Obiettivo: cercare di evitare che l’uomo dai capelli arancioni, il “sopravvissuto”, il populista e sovranista, diventi il 47° presidente degli Stati Uniti, dopo aver avuto per quattro anni la maglia n. 45.
La convention democratica si aprirà tra 28 giorni da oggi. Mancano 106 giorni al giorno delle elezioni. In questo breve arco di tempo molte cose accadranno. E molte di queste cose non sono mai state testate prima. Come ha scritto l’editorialista del New York Times, Nick Kristof, questo “sembra l’agosto del 1914, fulcro nell’insieme degli eventi”: “Questi giorni potrebbero aver spostato l’arco dell’America e del mondo, con la storia che barcolla in direzioni divergenti e in modi che potrebbe modellare il nostro corso per decenni”.