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Biden si ritira: basterà questo per convincere i pro Palestina a votare Partito democratico?

di Stella Saccà

Da Byedon (slogan del 2020 con cui si inneggiava alla vittoria di Joe Biden e alla sconfitta di Donald Trump), si è passati a Byeden, slogan con cui molti americani esprimono la loro contentezza per essersi liberati di un presidente che ricorderanno solo come colui che ha permesso una delle più terribili pulizie etniche della storia. Genocide Joe, lo chiamano, infatti, oltreoceano.

Se non ci fosse Trump a minacciare gli Stati Uniti; se non ci fosse Project 2025; se Biden non si fosse fatto da parte, Jill Stein – donna, ebrea, antisionista – avrebbe forse potuto davvero cambiare la storia a stelle e strisce.

Gli studenti universitari che hanno incendiato la primavera americana, i moltissimi ebrei americani che criticano Netanyahu, quelli che da sempre sono antisionisti e vedono l’esistenza dello Stato di Israele come un errore e un simbolo di colonialismo imperialista, gli americani che pensano che supportare Israele e non la Palestina nel conflitto mediorientale non è in realtà progressista – anzi – e milioni di arabi americani non vogliono votare per il partito democratico. Per principio, dopo quanto successo dopo il 7 ottobre 2023, non riescono a confermare un voto di fiducia a un sistema che li ha delusi, che non li ha ascoltati, che ha dimostrato di non essere poi così diverso dal suo nemico.

Non è facile dimenticare i veti alle Nazioni Unite; le tantissime occasioni di conferma di totale solidarietà e supporto al primo ministro israeliano; i milioni di dollari presi dalle tasse dei cittadini americani e dati a Israele per le armi; il porto temporaneo costruito a Gaza e costato oltre 320 milioni di dollari, che sarebbe dovuto servire per consegnare aiuti umanitari ma che invece è stato usato come cavallo di Troia per un ennesimo massacro di civili palestinesi; gli air drop di scatole di cibo (spesso avariato) che non solo non ha risolto il problema della fame a Gaza, ma che si è tradotto in un’altra ragione di morte di civili; la mancata condanna ufficiale del governo americano per le diverse affermazioni di grido alla pulizia etnica del ministro di sicurezza nazionale israeliano Itamar Ben Gvir; la reazione violenta della polizia inviata a liberare le occupazioni studentesche per Gaza.

Vorrebbero dare il proprio voto all’unica vera bandiera per le loro ideologie, la “giovane 74enne” Jill, che grida di smetterla con il genocidio del popolo palestinese, che vuole disinvestire dalle lobby che dirigono gran parte delle dinamiche politiche, che denuncia il pericolo del cambiamento climatico, che grida all’orrore del secondo emendamento della Costituzione Americana che permette di sparare a chiunque – persino a un ex (e al contempo attuale candidato) presidente -, che preme per dare più supporto per l’educazione, che vuole costruire 15 milioni di nuove case, che vuole garantire Medicare per tutti, che vuole ridurre le spese militari del 50%, che basa la sua campagna sulle energie rinnovabili ed è contro il nucleare.

Jill Stein mette d’accordo tutti i veri progressisti americani, specie quelli che ritengono non ci sia poi troppa differenza tra repubblicani e democratici.

Qualcuno la differenza tra Biden e Trump l’ha però sentita. I venezuelani, ad esempio: molti di loro sono riusciti a legalizzarsi e a iniziare una nuova vita. Ma per gli altri emigrati? Quelli per cui sono stati creati il muro e le gabbie che l’amministrazione Biden doveva eliminare?

È vero, l’economia, nonostante il post Covid, è stata riportata a una crescita rapida e stabile, la disoccupazione è scesa, si è investito molto nelle infrastrutture, si sono consolidati i rapporti con la Nato, si è completato il ritiro delle truppe dall’Afghanistan. Ma basta questo se poi i bambini nelle scuole continuano a morire uccisi da colpi di pistola sparati dai loro compagni? Se quando ti viene somministrata una medicina non sai mai se ne hai davvero bisogno o se c’è dietro un interesse economico? Se non si interrompono i rapporti con Stati che non rispettano le leggi internazionali ma, anzi, si dà loro supporto incondizionato?

Jill promette di aggiustare lo storico problema di dipendenza dell’America con il potere delle lobby. Ma gli americani hanno paura. Che fare, allora? Una prova di coraggio e coerenza e darle comunque il voto? Oppure questo comporterebbe un drammatico effetto collaterale di voti persi per il partito democratico e un favore a Trump? In fondo, ora – i meno radicali si dicono – Biden non è più candidato, ed è lui l’emblema del genocidio palestinese. Alcuni di loro lo avrebbero votato comunque sperando in una sua morte mid-term e in un subentro della vice presidente Kamala Harris. Quindi ora, specie se dovesse proprio essere lei la candidata presidente, il loro voto è lì che andrà. Quel losco Project 2025 fa troppa paura, d’altronde. E il 2016 non è abbastanza lontano.

C’è poi anche un altro candidato presidente contro il genocidio, Chase Oliver, che ha battuto Trump e Robert F Kennedy JR (ora candidato indipendente) alle elezioni per il candidato presidenziale per il partito libertario. Classe 1985, dichiaratamente omosessuale, ha più volte espresso la sua solidarietà al popolo palestinese. Non convince però il suo supporto a tutela del secondo emendamento e per il nucleare.

I veri progressisti, fatti per lo più da ex democratici delusi da quanto sta accadendo in Palestina, non hanno dubbi: Jill Stein per i più radicali; per i meno radicali, partito democratico, specie ora che non c’è GenocideJoe. Perché, si dicono, se Jill dovesse regalare voti a Trump, Gaza continuerebbe a essere rasa al suolo, ma l’America farebbe la stessa fine.

Project 2025 fa paura quanto il progetto di costruzione per la nuova Gaza delle compagnie immobiliari israeliane, e le finte bende alle orecchie dei repubblicani fanno paura come i bambini morti imbustati a Gaza.