Diritti

Genere non binario, la Consulta: “Per la rettifica dell’attribuzione serve una legge”

Per l’attribuzione anagrafica del genere “non binario” serve una legge. La Corte Costituzionale in sintesi si è espressa così in riferimento a una questione di legittimità sollevata dal Tribunale di Bolzano dopo la richiesta di una transgender, biologicamente donna ma che stava transitando nel genere maschile, che voleva rettificare il sesso nell’atto di nascita da […]

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Per l’attribuzione anagrafica del genere “non binario” serve una legge. La Corte Costituzionale in sintesi si è espressa così in riferimento a una questione di legittimità sollevata dal Tribunale di Bolzano dopo la richiesta di una transgender, biologicamente donna ma che stava transitando nel genere maschile, che voleva rettificare il sesso nell’atto di nascita da ‘femminile” ad “altro”, seppur “incline al polo maschile”.

La Consulta ha quindi dichiarato inammissibile la questione di legittimità promossa dal Tribunale di Bolzano nei confronti dell’art.1 della l.164 del 1982, nella parte in cui non prevede che la rettificazione possa determinare l’attribuzione di un genere “non binario” (né maschile, né femminile).

“L’eventuale introduzione di un terzo genere di stato civile avrebbe un impatto generale, che postula necessariamente un intervento legislativo di sistema, nei vari settori dell’ordinamento e per i numerosi istituti attualmente regolati con logica binaria”. La sentenza sottolinea al riguardo – spiega una nota della Corte Costituzionale – che “la caratterizzazione binaria (uomo-donna) informa, tra l’altro, il diritto di famiglia, del lavoro e dello sport, la disciplina dello stato civile e del prenome, la conformazione dei ‘luoghi di contatto’ carceri, ospedali e simili)”.

La Corte, con la sentenza n. 143 depositata oggi, rileva tuttavia che “la percezione dell’individuo di non appartenere né al sesso femminile, né a quello maschile – da cui nasce l’esigenza di essere riconosciuto in una identità ‘altra’ – genera una situazione di disagio significativa rispetto al principio personalistico cui l’ordinamento costituzionale riconosce centralità (art. 2 Cost.)” e che, “nella misura in cui può indurre disparità di trattamento o compromettere il benessere psicofisico della persona, questa condizione può del pari sollevare un tema di rispetto della dignità sociale e di tutela della salute, alla luce degli artt. 3 e 32 Cost.”.

“Tali considerazioni” – conclude la Corte – “unitamente alle indicazioni del diritto comparato e dell’Unione europea, pongono la condizione non binaria all’attenzione del legislatore, primo interprete della sensibilità sociale“. La Corte ha poi dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011, nella parte in cui prescrive l’autorizzazione del tribunale al trattamento medico-chirurgico anche qualora le modificazioni dei caratteri sessuali già intervenute siano ritenute dallo stesso tribunale sufficienti per l’accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso.

La Corte ha infatti osservato che, potendo il percorso di transizione di genere “compiersi già mediante trattamenti ormonali e sostegno psicologico-comportamentale, quindi anche senza un intervento di adeguamento chirurgico”, la prescrizione dell’autorizzazione giudiziale di cui alla norma censurata denuncia una palese irragionevolezza, nella misura in cui sia relativa a un trattamento chirurgico che “avverrebbe comunque dopo la già disposta rettificazione”. In questi casi, il regime autorizzatorio, non essendo funzionale a determinare i presupposti della rettificazione, già verificatisi a prescindere dal trattamento chirurgico, viola l’art. 3 Cost., in quanto “non corrisponde più alla ratio legis”.