Ei fu. Joseph Robinette Biden Jr., meglio noto come Joe Biden, è uscito di scena nel pomeriggio di domenica scorsa con una lettera nella quale, con orgogliosi accenti, ha comunicato urbi et orbi la sua decisione di rinunciare alla corsa per restare un altro quadriennio nella candida magione di 1600 Pennsylvania Avenue, Washinton D.C.. Ed ai posteri spetta ormai, per ulteriormente parafrasare i celeberrimi versi del Manzoni, l’ardua sentenza su quel che, osservati con la lente della Storia, hanno effettivamente rappresentato, per l’America e per il mondo, i suoi quattro anni di presidenza. Davvero, durante il suo mandato gli Stati Uniti hanno – come lui afferma nella lettera – fatto “grandi progressi come Nazione”? Davvero sono stati, i suoi quattro anni alla Casa Bianca, essenziali per “proteggere e preservare la democrazia”? E, soprattutto: quanto tempestiva, o quanto tardiva – sempre ai fini di proteggere e preservare la democrazia – è stata la sua decisione di abbandonare la corsa al termine di una battaglia vanamente (e probabilmente troppo a lungo) combattuta contro un nemico, il tempo, che nessuno è mai stato in grado di sconfiggere?

Opportunamente sbolognato alle prossime generazioni l’onere d’una risposta, la più impellente domanda resta oggi, guardando al presente e al futuro, la seguente: ritiratosi Biden, quante sono, per il candidato subentrante, l’attuale vicepresidente Kamala Harris, le effettive possibilità di continuare a “proteggere e preservare la democrazia”? Più in concreto: quante vere chance ha Kamala Harris di impedire, il prossimo novembre, il realizzarsi d’un evento – il ritorno di Donald J. Trump, messia e santo martire, alla presidenza degli Stati Uniti d’America – che la scorsa settimana la Convention repubblicana di Milwaukee già ha celebrato come un solenne ed ormai solo formale adempimento della volontà di “God Almighty” (sì, proprio Lui, il Dio Onnipotente che, poco più d’una settimana fa, in quel di Butler, in Pennsylvania, ha salvato la vita del più recente ed eminente dei suoi rappresentanti in Terra).

Alla luce delle cronache recenti e di quelle più remote (Storia, la chiama qualcuno) la risposta è: non molte. Le statistiche non hanno un gran senso, ovviamente, in questo molto specifico calcolo delle probabilità. Ma volendone – giusto per dare un idea – farne uso, quel che si ottiene è un non troppo confortante 4,35 per cento. Ovvero: due possibilità su 46. Perché tanti sono stati, nel corso del quasi quarto di millennio della Storia americana, i vice subentrati, a fine mandato, ai propri predecessori. Il più recente fu, nel 1988, George H. Bush che, raccolta l’eredità di Ronald Reagan, venne quattro anni più tardi sconfitto da Bill Clinton. E di ben 152 anni – giù fino al 1836 – bisogna retrocedere per incontrare il caso di Martin Van Buren, succeduto a Andrew Jackson ed anche lui costretto al trasloco quattro anni più tardi dalla vittoria di William Henry Harrison.

Tutti gli altri vicepresidenti subentrati nel “big job” hanno raggiunto l’obiettivo solo grazie alla morte, fisica o politica, del predecessore: Harry Truman dopo la morte di Franklin Delano Roosevelt, Lyndon B. Johnson dopo l’assassinio di John Kennedy e Gerald Ford dopo le dimissioni di Richard Nixon a seguito dello scandalo Watergate. Oppure sono entrati alla Casa Bianca solo dopo un periodo di attesa, come accaduto a Nixon, sconfitto nelle vesti di vice di Eisenhower nel 1960, ma vittorioso nel 1968; e come Joe Biden, messo da parte nel 2016 a favore di Hillary Clinton al termine del doppio mandato di Barack Obama, ma tornato quattro anni fa in auge, ormai 77enne, come candidato anti-Trump.

Tutti gli altri – Alben Barkley (1952, dopo Truman), il già citato Richard Nixon (1960, dopo Eisenhower), Hubert Humphrey (1968, dopo Lyndon Johnson), Al Gore (2000, dopo Bill Clinton), hanno fallito l’obiettivo. Riuscirà Kamala Harris – se davvero, come tutto lascia credere, proprio a lei toccherà la nomination democratica – a spezzare questa sorta di maledizione?

L’impresa appare tutt’altro che facile. Ed i precedenti politico-elettorali della Harris non appaiono di particolare conforto. La sua campagna nelle primarie democratiche del 2020 si concluse malamente, molto prima che si cominciasse a votare. E nessuna particolare luce s’intravvede nelle sue precedenti campagne californiane, prima come Attorney General e poi come senatore. Anche come vicepresidente, Kamala raramente è uscita dal cono d’ombra nel quale tradizionalmente si muovono i vice. E, quando l’ha fatto, non ha lasciato particolari tracce, se non forse di recente, quando ha, a nome della presidenza, preso pubblicamente le difese dei diritti di scelta della donna dopo l’abolizione della Roe vs. Wade, la sentenza della Corte Costituzionale che, dal 1973, garantiva il diritto d’interruzione della gravidanza.

A suo vantaggio giocano però almeno due fattori. Il primo: nel suo caso, Joe Biden le ha passato il testimone con (almeno apparente) entusiasmo e convinzione, cosa che non era accaduta ad Alben Barkley nel 1952, quando di lui, ormai 74enne, Harry Truman questo pubblicamente disse: “Il povero Alben, se lo eleggono, non sopravviverà che un paio di settimane al peso della carica”. Oppure a Richard Nixon, la cui figura non venne, ai tempi, propriamente esaltata da Ike Eisenhower. Quando infatti, ormai sulla porta d’uscita, nel corso di una conferenza stampa un giornalista gli chiese nel nome di quali virtù politiche suggerisse un voto per il suo successore, questo rispose: “Se mi deste una settimana di tempo, potrei rispondervi. Al momento non me ne viene in mente alcuna”.

Secondo (e molto più importante) fattore: Donald Trump. O meglio le tre – facciamo quattro – “D” che, di Trump, sono la criptonite. D come Donald, ovviamente. D come democrazia, D come Dobbs Vs Jackson, la sentenza con cui la Corte suprema da Trump modellata ha abolito la Roe Vs Wade. E infine – e questa è una novità – D come “decrepit”, vecchio ammuffito.

Spiegazione. Per quanto beatificato dai seguaci del suo culto – quello che, contro ogni senso storico, ancora si fa chiamare Partito Repubblicano – Donald Trump resta, per almeno tre ragioni, un candidato estremamente vulnerabile. Intanto perché ora, con l’uscita di scena di Joe Biden, è contro di lui che gioca il fattore età. È lui adesso (e qui emerge la D di decrepit) il vecchio rimbambito della storia, come lui stesso si è generosamente premurato di dimostrare, ancor prima del ritiro di Biden, con il suo deambulante, sconnesso ed incoerente discorso d’accettazione della nomination al termine del processo di beatificazione di Milwaukee. È lui (D di Dobbs Vs Jackson) il massimo responsabile dell’abolizione del diritto d’aborto, che ha scatenato l’ira di una grande maggioranza delle donne. E soprattutto è lui – D di Donald e D di democrazia – che, senza rimedio, è… Donald Trump. Un dittatore in fieri ed anche, un personaggio che, per quanto dai suoi venerato, resta strutturalmente impopolare, minoritario.

Trump è, infatti, l’unico presidente che, da quando esistono i sondaggi d’opinione, non ha mai avvicinato, in termini di popolarità, la soglia del 50 per cento. Ed ancor oggi, pur nel pieno d’una apparente marcia verso la vittoria nel nome di God Almighty, vanta indici di gradimento appena più alti di quelli, bassissimi, di Joe Biden. Per quanto “da Dio creato”, come recita uno dei più diffusi tra suoi video di campagna, Trump ha in realtà perso tutte le elezioni che lo hanno fin qui visto protagonista. Nel 2016 contro Hillary Clinton, sconfitta nel computo dei collegi elettorali, ma forte di tre milioni di voti di vantaggio nel voto popolare. Nel 2018, quando, lui presidente, i repubblicani vennero massacrati nelle elezioni di metà mandato. Nel 2020 contro Joe Biden e, ancora, nelle elezioni di metà mandato del 2022.

E questo è il punto. Dovesse Kamala Harris riuscire a condurre la sua campagna con questo poker di D in bella evidenza potrebbe vincere. Forse – perché no – addirittura stravincere. Vale la pena sperarlo. Dopotutto la posta in palio è, ancora una volta – non solo negli Stati Uniti – la protezione e la preservazione della democrazia.

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