“Quando ha smesso di essere fascista?”, domanda per tre volte l’intervistatore. Risposta (al secondo tentativo): “Il mio atteggiamento forse troppo benevolo verso il Ventennio era (…) mutato fin dai 18 anni, dopo i miei studi all’estero”. Il giornalista ci riprova per la terza volta: e il momento in cui avvertì di “essere cambiato?”. Risposta: “Fu quando mi resi conto delle leggi razziali. Da ragazzo non me ne aveva parlato quasi nessuno, lo ammetto. Poi in me scattò qualcosa che fu amplificato dalla conoscenza della comunità ebraica“.

Fin qui tutto bene (si fa per dire), se non fosse noto il cursus honorum dell’intervistato Ignazio La Russa nel Movimento Sociale Italiano, partito che fu diretta filiazione in età repubblicana della Repubblica di Salò. Ma se si torna all’inizio dell’intervista ci si accorge di una netta incongruenza nelle parole consegnate dal presidente del Senato al Corriere della Sera. Può capitare. In decenni di politica se ne dicono tante. Oppure semplicemente ti trovi talmente a tuo agio nell’esprit du temps di un periodo in cui è accettabile persino inneggiare alla Decima Mas che ti senti in diritto di sbeffeggiare il tuo interlocutore. Fatto sta che a riga 29 dell’articolo, parlando di Tatarella, La Russa racconta: “Era il 1990, stavamo andando a San Gallo, in Svizzera, dove avevo studiato per 5 anni in collegio. E nel tragitto da Milano proposi una piccola deviazione. Quel giorno l’associazione che si occupa delle onoranze ai caduti della Repubblica Sociale – riconosciuta dal Comune di Milano – avrebbe deposto come tutti gli anni un mazzo di fiori nel luogo in cui era stato ucciso Benito Mussolini. Allora dissi a Pinuccio: ‘È solo a tre chilometri, vogliamo andarci?’. Non lo avessi mai detto”. Perché Tatarella si infuriò, disse di no e Ignazio rispose incredulo: “Ma portano solo dei fiori“.

Nato nel 1947, nel 1990 Ignazio La Russa aveva 43 anni. Da quanto racconta, in quel momento voleva unirsi a un gruppo di camerati che si recavano a rendere omaggio al Duce nel luogo in cui era stato fucilato. A quella data, è lecito inferire, l’atteggiamento “benevolo verso il Ventennio” dell’uomo che oggi ricopre la seconda carica dello Stato non era esattamente mutato. Anzi. Quindi, stando a quanto dice lui stesso, fino al 1990 La Russa non aveva ben compreso cosa fossero le leggi razziali promulgate dal regime fascista, argomento che in Italia rientra nei programmi delle scuole medie. Eppure a 43 anni non era proprio un bambino né un ragazzo, la Russa. Da un bel po’ aveva finito le superiori, si era laureato in giurisprudenza a Pavia, aveva sostenuto anche l’esame per l’abilitazione da avvocato. Ma, disdetta, nessuno era stato in grado di spiegargli e fargli capire l’orrore delle leggi varate il 5 settembre 1938 che allinearono nell’atteggiamento verso gli ebrei l’Italia fascista di Mussolini a quella nazista di Adolf Hitler. Non glielo avevano raccontato bene. Poi qualcuno se la prende quando dici che la scuola non funziona.

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