Le vie della scrittura sono infinite e spesso imprevedibili. È il caso di Frank Gonella, autore di riconosciuto talento, che proviene da mondi apparentemente lontani da quello della letteratura. Il nome di Gonella è infatti legato all’innovazione in campo digitale in Italia. Ha co-fondato Vitaminic, la prima piattaforma europea di streaming musicale che ha portato alla quotazione. Attualmente è partner di Primo Ventures Sgr, la più importante piattaforma indipendente di investimenti “tech”, nei settori digital, space, health e climate. Poi c’è il Gonella autore e scrittore. Che firmò, sotto lo pseudonimo di Alessandro Verri, un romanzo che divenne un piccolo cult nei primi anni Duemila. Si intitolava La madre del torero: uscì inizialmente in poche copie, subito ristampate, per la sigla editoriale Aliberti Castelvecchi (quella del Metodo Sticazzi, un successo da oltre settantamila copie).
A distanza di anni, in un panorama editoriale molto mutato in cui l’originalità delle proposte è merce sempre più rara, l’editore Aliberti e Verri-Gonella hanno deciso di riproporre il testo ormai introvabile in una nuova veste, con il nome vero dell’autore e un nuovo titolo: Il vocabolario delle sirene. È il racconto di un’avventura rocambolesca in una Milano un po’ lisergica e trasfigurata e dell’incontro tra un giovane borghese scrittore fallito e un panciuto rom di mezza età, simpatico e cialtrone quanto basta a farne un nuovo eroe picaresco, capace di condurre il suo improvvisato compagno verso una nuova vita fuori dagli schemi.
In anteprima esclusiva per Il Fatto Quotidiano, uno stralcio dell’incipit del romanzo.
Cara mamma,
non so bene da dove cominciare.
Per trovare la frase giusta dovrei chiedere aiuto alla mia biblioteca, ma come sai non esiste più.
Ecco: ti ho già innervosita, ti ho parlato dei libri e non ti ho chiesto nemmeno come stai.
Come stai?
Immagino non troppo bene, dopo questo casino. È per questo che ti racconto. Lascio che a parlare sia il diario di questi miei giorni.
C’è poca letteratura, dentro.
15 giugno (mattina presto)
Sono uscito alle otto, fa un gran caldo, non ho dormito, in via Montenapoleone affondo nei miei pensieri da liceale: duelli a mani nude con tigri azzurre, rapimenti di principesse circasse, viaggi in mongolfiere spaziali, derive su zattere caraibiche, e li vedo naufragare in un mondo di amministratori delegati.
Cammino a testa bassa, per paura di incontrarli. La mamma, Marco, la Bea, Larissa, la colf. Anche il loro cane: Budget.
Dialogo con mio fratello:
«Perché l’avete chiamato così?»
«Il budget è il cane da guardia dell’azienda».
Fine del dialogo.
Paura di incontrare tutti gli altri, i miei compagni di quel tempo, che la mamma mi dice sempre: che carriera ha fatto il Giampi o il Claudio o il Matteo!
«Ma tu sei…» mi fanno se li incontro.
E io: «No, guardi, si sbaglia».
«Ah, mi scusi».
«Di niente».
Pretendono che ricordi. Ma io non mi ricordo, davvero.
Prendo un caffè da Cova. Penso: anche Hemingway andava da Cova. Hemingway è stato in tutti i bar del mondo.
Poi ancora avanti, piano. Per il caldo.
Quasi all’angolo con via Santo Spirito, piccolo spavento: dai fantasmi del mio inconscio si materializza una signora âgé, terribilmente di classe – no collagene, no bisturi, no Cavalli –, uguale alla mamma. Ci avviciniamo, stiamo per scontrarci, sono il Titanic in rotta di collisione contro l’iceberg materno. Le squilla il cellulare. Quando apre la Chanel siamo quasi faccia a faccia. Ma invece di rispondere alza lo sguardo, un po’ di sbieco rispetto a me, e resta sospesa con una piega di terrore sul volto.
Tutto è liquido, in quel momento.
Improvvisamente, dal nulla, alle mie spalle, sbuca una pesante ombra scura che spintona la signora e corre via con la borsa.
Il doppelgänger materno barcolla.
Si accascia lievemente, come un soufflé venuto male. Ma con un certo stile, devo dire. L’uomo svolta l’angolo di via Santo Spirito. Tre giapponesi, perduti, ci guardano, con la guida in mano. Poi la aprono, cercando una conferma. Nessun vigile, nessuna guardia giurata.
Mi butto in via Santo Spirito, di corsa.
L’altro lì davanti, un venti metri. Uno grassottello, bassotto, tarchiato. Pantaloni blu, maglietta nera, scarpe con quattro strisce. Finte Adidas. Un chiaro marker sociale, direbbe la Ceci. Dopo un cento metri, vedo nero. Sono fuori allenamento. Anzi non sono mai stato allenato, io, mica come Marco, che va al Getfit.
Ma anche quello è scoppiato.
All’angolo con via della Spiga si ferma. Si gira e mi guarda.
Tiene la borsetta sotto l’ascella. Sembra un indiano, un turco, un pakistano. Ha il fiatone, ma non molla. Proseguiamo con piccole corsette, come due cretini in ritardo per il tram.
In via Manzoni c’è gente, ci sono i vigili.
Ma io non urlo: prendete il ladro, l’extracomunitario, il delinquente, l’uomo nero!
Non lo sto inseguendo. So già da che parte stare: sto scappando con lui.
È la mia ira funesta, contro quelli che mi hanno portato via trentasei santissimi anni di vita. Tutta la mia vita.
Sudato marcio lo seguo nei giardini di via Palestro. Lui è un cinque metri avanti a me. Se facessi uno scatto potrei prenderlo. Ma ormai siamo stremati. Camminiamo lenti, ogni due metri ci fermiamo, piegandoci in due con le mani sulle ginocchia.
Alla fine si siede su una panchina.
Resto in piedi davanti a lui, ansimando.
Il sudore gli cola sulla faccia. Mi fissa con due occhi che Salgari avrebbe descritto come: misteriosi, neri, profondi, fieri. Mi porge la borsa. Resta sospesa fra noi, a mezz’aria.
Gli dico: dividiamo.
Ha un cenno infinitesimo di stupore sulle sue labbra. Mi siedo anch’io. Restiamo lì sulla panchina, in silenzio, mentre portano a cagare i cani. Piccoli e grandi, incazzosi e servili, cagano tutti. Li guardiamo inebetiti, e insieme a loro le colf filippine, le badanti ucraine, le madri ingioiellate, le studentesse in short, i single in scarpe tecniche, che raccolgono la merda con guanti trasparenti, garze di cellofan, palette improvvisate.
Rifiatiamo.
Dopo un po’ io a lui:
«Guarda un po’ che teneva nella borsa».
Me la passa. Dentro trovo un portafoglio, con trecento euro, carta di credito, bancomat, foto di nipoti, e poi le chiavi di casa, una spilla, un telecomando per portone, fazzoletti di carta. Mi tengo centocinquanta euro, gliela ripasso. Raspa, come se dentro ci dovesse trovare un tesoro.
«Non possiamo usare le carte, gli dico. Avrà già bloccato tutto, le è rimasto il cellulare».
Grugnisce.
Passa una sirena. Ci guardiamo.
«Perché hai rubato? Hai bisogno di soldi?»
Grugnisce.
«Dove abiti?»
Grugnisce.
Poi:
«Io non avere niente. Io scappare, gente cattiva volere ammazzare me».
«Chi ti vuole ammazzare?»
Grugnisce.
«Dài, andiamocene a casa mia, abito qui vicino. Siamo soci, no?»
Credo che la storia del socio non l’abbia capita. Ma a me piace, l’idea: associazione a delinquere. Suona bene. Butto la Chanel in un cestino. Lui la riprende:
«Questa soldi. Te gajé, non capire».
Ho avuto la mia lezione. Il socio la sa più lunga di me.
Ci incamminiamo a testa bassa. Uno di fianco all’altro, come se ci fossimo sempre conosciuti, le mani dietro la schiena, due filosofi senza idee. Camminiamo in silenzio, nel casino di corso Buenos Aires e intanto lo studio: è uno zingaro, un rom. Può avere qualsiasi età fra i trenta e i cinquanta, è sporco da schifo, e soprattutto ha una t-shirt con un robottone giapponese. Enorme, che sta sparando laser galattici.
«Dove l’hai presa, quella?» e gli indico la maglietta.
«Questa regalo».
Chi può fare un regalo così?
«Come ti chiami?»
«Io non chiamare, altri chiamare me!»
E ride da solo, a questa battuta idiota. Due denti d’oro.