di Leonardo Botta

Il 26 febbraio dell’anno scorso centottanta poveracci si imbarcarono dalle coste della Turchia per raggiungere la “terra promessa”; tra loro, migranti somali, afghani, pakistani, siriani, iracheni; non mancavano naturalmente donne e bambini. Affrontarono un viaggio in mare di un migliaio di chilometri, in pieno inverno, chiusi per cinque giorni nella stiva di un malandato caicco prima di schiantarsi vicino alle coste di Steccato di Cutro. Novantotto furono le vittime accertate.

Seguirono giorni di discussioni sulle dinamiche del naufragio, sul fallimento dei soccorsi, sulle norme di salvataggio in mare e sulla mancata attivazione delle procedure Sar (“Search And Rescue”), sul ruolo e sulle eventuali responsabilità della Guardia di Finanza e di quella Costiera, dell’agenzia Frontex nel segnalare la presenza dell’imbarcazione nei pressi delle nostre coste, del Ministero dell’Interno e del governo. Ora le autorità competenti hanno chiuso le indagini. Sono indagati, per l’ipotesi di reato di naufragio colposo e omicidio colposo plurimo, sei tra operatori di Finanza e Guardia Costiera coinvolti nelle operazioni quella tragica notte.

Sia chiaro: non abbiamo bisogno di alcun clima di caccia alle streghe e dobbiamo mostrare piena fiducia nei confronti delle nostre forze dell’ordine, ma anche nell’operato della magistratura inquirente e degli organi giudicanti. Ma mi pare doveroso, per rispetto della memoria delle vittime e dei loro familiari, che fatti e responsabilità vengano accertati, ed eventuali colpe perseguite. Soprattutto, ciò di cui facciamo volentieri a meno è lo sfoggio di striscioni dalle due opposte curve ultras, tra chi vorrebbe uno scudo di impunità per gli indagati e chi manderebbe in galera pure l’intero governo. C’è da fare il tifo solo per l’accertamento dei fatti e per l’affermazione della giustizia.

Ciò che però possiamo a questo punto affermare è che c’erano motivi fondati per dubitare della correttezza dell’operato della catena impegnata nelle operazioni a terra e in mare in quelle drammatiche ore. E legittime erano le incalzanti domande dei giornalisti alla successiva conferenza stampa del governo, in cui una stranamente disorientata premier Giorgia Meloni forniva risposte balbettanti e poco convincenti, corretta sottovoce dal suo vice Tajani.

Intanto, nei confronti del tam-tam filo-govenativo partito in queste ore, con il quale sarà ribadito in tutte le salse il pieno sostegno, senza se e senza ma, agli indagati (che, giova banalmente ricordarlo, saranno innocenti fino all’ultimo grado di giudizio che attesti eventualmente il contrario), forse è il caso di ricordare un altro analogo, drammatico episodio: il naufragio di un peschereccio eritreo nel Canale di Sicilia, nel quale trovarono la morte decine, forse centinaia (il triste bilancio non è mai stato definito) di migranti.

Correva l’anno 2015, presidente del Consiglio era Matteo Renzi. E una indignata Giorgia Meloni, all’epoca leader di piccolo partito di opposizione, Fratelli d’Italia, per l’occasione twittava così: “Naufragio nel Canale di Sicilia: il governo Renzi dovrebbe essere indagato per reato di strage colposa”. Eppure quella strage era avvenuta a 200 chilometri dalle coste italiane di Lampedusa. Quella di Cutro, ad appena 200 metri. Ma questi sono solo inutili dettagli geometrici.

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