La “struttura si trova in uno stato di degrado dovuto a fenomeni di forte corrosione per la scarsa manutenzione che si è protratta negli anni. In molte parti si notano distacchi delle stesse passerelle con grave pericolo per i residenti”. Siamo a pagina 20 della Relazione tecnica e illustrativa del progetto “Restart Scampia”, capitolo “La riqualificazione della Vela B”. La Vela Celeste. Quella in cui un ballatoio al terzo piano è crollato una sera di luglio 2024, trascinando con sé decine di persone.

Tre i morti al momento: Roberto Abbruzzo, Margherita Della Ragione e Patrizia Della Ragione. Rispettivamente 29, 35 e 53 anni. Tutti imparentati tra loro. Tra i feriti rimangono gravissime due bambine, di 4 e 7 anni. “Condizioni stabili pur nell’estrema gravità”, recita il bollettino medico dell’Ospedale Santobono di Napoli del 24 luglio. E qui non rimane che incrociare le dita o pregare, per chi crede in qualche divinità. Quelle poche righe della Relazione tecnica e illustrativa parlano proprio di quel ballatoio crollato, di quella “rete di collegamento pedonale tra i vari piani […] costituita da passerelle in acciaio e cemento armato”.

Il documento è dell’agosto 2016, cioè di 8 anni fa. È un atto di accusa pesantissimo, che fa piazza pulita di troppe ricostruzioni di cui pure si sta leggendo in queste ore. Ci dice una cosa e ce la dice con chiarezza: le istituzioni sapevano da almeno 8 anni che quelle “passerelle” erano e sono un “grave pericolo per i residenti”.

E lo sapeva anche chi quella Relazione non l’ha mai letta. Perché c’è un altro episodio assai inquietante. È il 29 gennaio 2016. Più di 8 anni fa. Due poliziotti entrano nella Vela Celeste per i controlli di routine a una persona detenuta ai domiciliari proprio lì. Il primo sale la scala della “passerella” che, però, prima sussulta, poi crolla. Il poliziotto riesce a salvarsi, se la cava con “soli” 5 giorni di prognosi, anche grazie al provvidenziale aiuto dell’uomo ai domiciliari. All’epoca quasi ci si scherza su. La guardia salvata dal ladro. I paradossi della storia. Poi, anche questa storia, finisce nel dimenticatoio. Non per gli abitanti delle Vele, costretti a fare i conti con questi rischi ogni maledetto giorno.

Sono passati 8 anni dalla “Relazione” e dal poliziotto salvato dal ladro. Il “pericolo” si è concretizzato di nuovo. E stavolta non c’è stato il miracolo. Si contano i morti e i feriti. Si piangono.

E allora cominciano ad affastellarsi tante domande in testa: chi ha avallato i tagli dell’austerità che si traducono in fondi scarsi per l’edilizia pubblica? Quanto tempo ancora bisognerà aspettare per un vero e proprio piano casa? Perché non si è riusciti a fornire soluzioni alternative reali a persone in stato di fortissimo disagio abitativo? Quanto vale la vita di chi abita le periferie delle nostre città? Per andare a definire una periferia non serve misurare i kilometri che la separano dal centro cittadino. Sono altri gli indicatori da osservare: il tasso di occupazione, i redditi, il tasso di dispersione scolastica. A determinare centro e periferia non è la geografia, ma la classe.

La distanza da osservare, semmai, è quella delle istituzioni e del potere politico. Verde pubblico, bus, metro, presidi sanitari, scuole, teatri, campi sportivi. Più ti allontani dal centro, più i luoghi sono occupati dall’abbandono. Tranne quando ci sono le campagne elettorali, chiaro. In quei periodi le periferie si affollano di mercanti, di venditori di fumo, di chi spaccia favori laddove non arrivano i diritti. Per fortuna, però, Scampia non è quel quartiere da copertina del turismo del degrado, Gomorra come e più della serie TV; né la capitale dell’assistenzialismo, come la descrive l’ultradestra quando c’è da attaccare il reddito di cittadinanza.

Negli anni si è costruito un tessuto di solidarietà che è costituito da tanti gruppi, associazioni, centri sociali, organizzazioni. Dal Centro Territoriale Mammut ai comitati delle Vele, dai disoccupati organizzati alle esperienze di sostegno all’infanzia. È un tessuto vivo e che, contrariamente alle narrazioni antimeridionali, non si limita ad aspettare la manna dal cielo. Si organizza quotidianamente, che le telecamere ci siano o meno poco importa. Perché la vita non dura il tempo di un servizio televisivo.

Oggi come ieri Scampia è colpita. Dal crollo. Dai morti. Ma anche dalla narrazione del potere mediatico che anziché puntare il dito su potere politico ed economico, ricicla cliché antimeridionali sempre pronti all’uso. E così, lo stesso quotidiano napoletano Il Mattino titola “litigio tra famiglie è la causa dell’incidente”. Lo fa pur ammettendo che “non viene considerata attendibile”. Oppure, sull’edizione cartacea del 24 luglio: “Morte nella Vela. Passerella abusiva crollata per il peso”. Titola così pur confessando, nel corpo dell’articolo di Paolo Barbuto, di non sapere se si trattasse di una passerella regolare o abusiva.

È un meccanismo ben noto. Lo stesso che l’allora ministra della Salute Lorenzin (oggi Pd) mise in campo nel settembre 2014, quando lasciò intendere che le morti per tumore nella Terra dei Fuochi fossero “colpa dello stile di vita”. È la colpevolizzazione della vittima. Se muori è perché in fondo te la sei cercata. Perché sei obeso, perché hai occupato un’abitazione, perché hai litigato su un ballatoio per futili motivi. E chi più ne ha più ne metta. Un meccanismo che permette di spostare lo sguardo dal potere.

Per questo, in queste ore, è fondamentale non lasciarsi distrarre. Tornare ad agitare quella Relazione del 2016 e impugnarla per quello che è: un impietoso atto d’accusa contro un’intera classe dominante.

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