Ultimamente più persone mi hanno chiesto cosa pensassi della classifica del New York Times che ha eletto L’amica geniale miglior libro del secolo. La domanda mi trova sempre impreparata; si tratta di una questione tutta interna alla cultura americana e non vedo come possa diventare argomento di dibattito qui in Italia. Per dirla in soldoni: i gusti son gusti. E chi sono io per emettere un giudizio su questo tema? E chi sarebbe autorizzato a farlo, se non coloro che hanno stilato la classifica e hanno messo in testa il libro di Elena Ferrante?
Questa domanda mi ronzava nella testa l’altra sera quando ho avuto l’opportunità di partecipare a un evento encomiabile: i proprietari di alcune dimore storiche toscane ospitano gratuitamente dei musicisti che si trovano nelle diverse zone della Toscana per festival o concerti (iniziativa dal titolo: Le dimore del quartetto). In cambio dell’ospitalità di pochi giorni, i musicisti offrono un piccolo concerto aperto a tutti nella dimora in cui sono ospitati. Iniziativa che permette di ascoltare gratuitamente un concerto in luoghi molto belli e generalmente preclusi al pubblico. La prendo alla larga perché il programma del concerto prevedeva un quartetto di Hayden, un quartetto di Schubert e una brano di Puccini per archi, I crisantemi. Gli americani che popolano in questo periodo la mia zona sono grandissimi amanti della musica puccianiana e con grande emozione e solennità si recano al festival di Torre del Lago in provincia di Lucca, dove tutte le estati si tiene un importante Festival dedicato al compositore lucchese.
L’altra sera nel giardino della dimora che ospitava il quartetto di archi (giovani musicisti molto bravi e professionali) tra il pubblico c’erano diversi americani. Hanno applaudito educatamente ai brani dei due compositori precedenti, ma con tutta l’anima il brano di Puccini, che a me ha lasciato invece un poco indifferente. Mi sono allora chiesta se ci fosse una relazione tra la passione degli statunitensi per Puccini e quella per Ferrante, se per caso ci fosse qualche similitudine tra questi due artisti, di campi ed epoche così diversi, che potesse giustificare l’entusiasmo americano.
Quando uscì nel 2011 L’amica geniale lo lessi con grande piacere, ma senza mai avere voglia di sottolineare neanche una frase, una piccola semplice frase che mi suggerisse qualcosa di nuovo, che desse voce a qualcosa di intimo e incompiuto in me; non trovai parole che aprissero ai miei occhi una lucente rivelazione né un’emozione. Niente. E infatti quel bel romanzo è scivolato via in fretta senza lasciarmi il desiderio di vedere la serie televisiva da esso tratta, né di leggere gli altri tre che compongono la quadrilogia (Storia del nuovo cognome del 2012, Storia di chi fugge e chi resta del 2013 e Storia della bambina perduta del 2014). Ugualmente, quando ho avuto l’opportunità di andare al festival Pucciniano di Torre del Lago, mi hanno entusiasmato solo certe arie memorabili delle opere di Giacomo Puccini, mentre le sue opere mi lasciavano nel fondo un velo di noia (cosa che non mi accade mai con Giuseppe Verdi!).
Non so se questo mio accostamento Ferrante/Puccini sia pertinente, molti storceranno il naso e mi accuseranno di qualche snobismo cultural-musicale. Ma credo che Ferrante sia stata capace di riprodurre perfettamente una certa magica atmosfera da feuilleton, atmosfera cara a Puccini (e forse direi a buona parte del pubblico americano), dove l’amore, la passione e i palpiti trasudano dal testo alla musica. Forse se qualcuno riuscisse a musicare Ferrante potrei finalmente sentire in me quel brivido, quella piccola commozione che mi attraversa, per esempio, ascoltando Nessun dorma. Chi riuscisse in questa impresa letteraria/musicale, trasformando la quadrilogia di Elena Ferrante in un bel trittico alla Puccini (il trittico di atti unici Il tabarro, Suor Angelica e Gianni Schicchi) e riuscisse a portare il prodotto finale negli Usa, farebbe quel che si chiama un bel bingo americano.