Appena un mese fa Trieste aveva assistito allo sgombero del famigerato Silos, il fatiscente edificio accanto alla stazione ferroviaria, già magazzino portuale dell’Impero austroungarico, dove transitanti e richiedenti asilo giunti dalle rotte balcaniche si accampavano a causa di un sistema di accoglienza inadeguato. Anni e anni senza far nulla, con società civile e terzo settore a sopperire alle mancanze delle istituzioni, nonostante l’accoglienza di chi domanda protezione sia obbligatoria per legge. C’è voluta la visita di Papa Francesco e del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in città a inizio luglio per la 50a edizione delle Settimane sociali dei cattolici italiani, perché quella vergogna fosse definitivamente chiusa e tuttavia, ancora una volta, senza soluzioni alternative strutturali. Ma sono bastate poche settimane perché il capoluogo del Friuli-Venezia Giulia tornasse a far parlare di sé per il livello delle sue strutture di accoglienza. Stavolta l’allarme riguarda il Centro di prima accoglienza “Casa Malala”, un’ex caserma della Guardia di Finanza nel comune di Monrupino, in prossimità del valico di Fernetti, al confine con la Slovenia. Il CAS (Centro di accoglienza straordinario) è quello preposto alla prima accoglienza delle persone che arrivano a Trieste, comprese famiglie e minori. La situazione? “Disumana“, sintetizzano i parlamentari Riccardo Magi e Matteo Orfini che hanno depositato un’interrogazione in cui chiedono al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi di “sanare una situazione ormai insostenibile”. Per capire di cosa parlano, basta guardare le foto allegate: “Cinque servizi igienici, sei lavandini e tre docce per 95 persone, infiltrazioni e muffa: questa la situazione nella quale operatori e ospiti, anche minori, devono vivere ogni giorno”, dichiara il segretario di +Europa Magi, che al Fatto parla di “evidente e strutturale mancanza di investimenti sull’accoglienza in una città raggiunta dai flussi della rotta balcanica: se in questi anni non ci fossero state associazioni e cittadini non ci sarebbe stato nulla, perché qui le istituzioni non si sono dimostrate all’altezza”.

Inaugurato nel 2016 e intitolato all’attivista pakistana Malala Yousafzai, la più giovane vincitrice del premio Nobel per la pace, il centro ha dimostrato di essere un modello efficiente di gestione della prima accoglienza, con rapidi turnover e redistribuzione dei richiedenti. Gestito per anni dal Consorzio italiano di solidarietà (ICS) di Trieste, nel 2022 è passato alla Caritas. Ma l’assenza di manutenzione, responsabilità delle istituzioni, lo ha ridotto nelle condizioni attuali. Sottoposta in modo costante ad un utilizzo intenso, la struttura avrebbe richiesto interventi costanti, in particolare sugli impianti idrici e fognari che sono a carico della Prefettura. “Al contrario – scrivono Magi e Orfini -, la struttura è caduta negli anni recenti (e vive a tutt’oggi) in una situazione di degrado difficilmente giustificabile“. Peggio: secondo i parlamentari, “la Prefettura di Trieste sarebbe a conoscenza da almeno tre anni delle difficoltà che “Casa Malala” vive”. E tuttavia non è stato fatto nulla. Così la struttura è arrivata a una situazione che ha dell’incredibile: “Destinata ad ospitare 95 persone, secondo quanto previsto dal bando, vede in funzione solamente cinque servizi igienici (uno ogni circa venti ospiti), sei lavandini e tre docce (una ogni 32 ospiti), mentre gli standard previsti per le diverse tipologie di strutture residenziali collettive prevedono un bagno completo ogni 6/8 abitanti”, spiega l’interrogazione al Viminale. E poi infiltrazioni, muffa e un impianto cucina acquistato dalla Prefettura nel 2018, pagato caro e mai installato. In mezzo alla struttura che gli interroganti chiedono di dichiarare non abitabile vengono ospitati anche donne e minori. “Il ministero ne è a conoscenza?“, chiedono i due a Piantedosi, suggerendo di acquisire una valutazione della ASUGI (Azienda sanitaria universitaria giuliano isontina) in merito all’agibilità sotto il profilo delle condizioni igienico-sanitarie attuali. E aggiungono: “Cosa ha impedito alla alla Prefettura di Trieste di intervenire? E quali azioni intendete intraprendere?”.

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