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Netanyahu negli Usa mette nel mirino l’Iran e sogna Trump alla Casa Bianca. Harris al bivio sul sostegno incondizionato a Israele

La visita sta polarizzando ulteriormente un panorama politico interno già dilaniato dalla corsa alla Casa Bianca e non potrà che riflettersi sul prosieguo della campagna elettorale. Oggi a Washington alle 13 ore locali (le 19 italiane) Benjamyn Netanyahu incontra Joe Biden e Kamala Harris dopo il discorso tenuto ieri al Congresso, che da un lato ha messo in evidenza il nervo scoperto dell’amministrazione dem sulle operazioni militari israeliane nella Striscia di Gaza – questione sulla quale ora la candidata dem dovrà decidere la propria linea – e dall’altra ha tirato esplicitamente in ballo quello che finora era stato il convitato di pietra delle tensioni in corso in Medio Oriente: l’Iran.

Il viaggio di un premier israeliano a Washington è sempre un avvenimento. Quello in corso in queste ore lo è ancora di più, dato il conflitto a Gaza e la campagna per le presidenziali in corso negli Usa. Nonostante l’atteggiamento più che comprensivo nei confronti di Tel Aviv tenuto da Biden sulla guerra ad Hamas, se Donald Trump tornasse alla Casa Bianca Netanyahu sarebbe il leader più felice della Terra e non fa nulla per nasconderlo: “Voglio ringraziare il presidente Trump per tutte le cose che ha fatto per Israele – ha detto ieri davanti al Congresso, dove è stato invitato dal Partito repubblicano -, dal riconoscimento della sovranità israeliana sulle alture del Golan alla risposta all’aggressione iraniana, al riconoscimento di Gerusalemme come nostra capitale e al trasferimento dell’ambasciata americana in quella città”. “Come gli americani – ha aggiunto -, anche gli israeliani sono stati sollevati” dal fatto che sia sopravvissuto all’attentato del 13 luglio.

Eppure Biden è stato oltremodo accondiscendente con Bibi e la guerra che ha causato la morte di quasi 40mila palestinesi. Il suo obiettivo resta quello di far accettare il piano per il cessate il fuoco presentato il 31 maggio, ma la sua linea morbida ha urtato la sensibilità di arabi e musulmani, giovani progressisti e americani di colore. “Non ho idea che i palestinesi stiano dicendo la verità su quante persone vengono uccise”, aveva detto esordito commentando a fine ottobre i primi tragici bilanci provenienti dalla Striscia. “Sono sicuro che sono stati uccisi degli innocenti, ed è il prezzo da pagare per aver scatenato una guerra”.

L’atteggiamento benevolo verso Tel Aviv e la tolleranza della Casa Bianca di fronte alla violenza con cui la polizia ha represso le manifestazioni filo-palestinesi in tutto il paese, inoltre, hanno tracciato un solco nello stesso Partito democratico tra i sostenitori della linea e coloro che temono che la scarsa considerazione verso arabi e musulmani – le cui simpatie per i dem sono diminuite negli ultimi mesi anche per lo spostamento a sinistra delle politiche dell’amministrazione in tema di diritti – possa rivelarsi un boomerang alle urne il 5 novembre.

Oggi un alto funzionario dell’amministrazione, che ha tenuto un briefing con i giornalisti a condizione dell’anonimato, ha detto che “non c’è luce tra il presidente e il vicepresidente” su Israele. Un netto cambio di rotta è impossibile anche solo da ipotizzare, ma nelle prossime settimane Harris – che nelle vesti di vicepresidente ha già tentato un riequilibrio in accordo con la Casa Bianca parlando più volte delle condizioni disumane vissute dalla popolazione della Striscia e criticando aspramente la guerra di Tel Aviv – avrà la possibilità di tentare di convincere il piccolo ma potenzialmente decisivo gruppo di elettori che hanno dichiarato di non poter votare per Biden. Appuntamenti determinanti saranno i prossimi comizi nel Michigan, che ospita la più grande comunità di arabo-americani degli Stati Uniti.

Ma il discorso di Netanyahu al Congresso ha acceso i fari su un altro importante dossier e chiamato esplicitamente in causa quello che fino a quel momento era stato un convitato presente ma rimasto in penombra. “Ci incontriamo oggi a un bivio della storia. Il nostro mondo è in subbuglio. In Medio Oriente, l’asse del terrore iraniano si confronta con l’America, Israele e i nostri amici arabi”, ha detto il premier israeliano rievocando la storica definizione cara ai repubblicani. Un altro riferimento all’amico Trump, che Netanyahu nel discorso ha ringraziato esplicitamente per quanto fatto nella lotta senza quartiere condotta contro Teheran, elevata dal tycoon durante la sua presidenza a nemico pubblico numero uno, culminata nel gennaio 2020 con l’uccisione a Baghdad di Qassem Suleimani.

Non può essere un caso se nelle stesse ore sia Teheran che Mosca, alleate in Medio Oriente, hanno fatto le loro mosse. In mattinata il Cremlino ha reso noto che ieri sera Vladimir Putin ha incontrato a Mosca Bashar al Assad, presidente della Siria che nello scacchiere mediorientale gravita nell’orbita dell’Iran. “Sono molto interessato alla sua opinione su come si sta sviluppando la situazione nella regione nel suo complesso”, ha detto Putin ad Assad, “purtroppo c’è una tendenza all’escalation, lo vediamo. Questo vale anche direttamente per la Siria”.

Contemporaneamente anche Teheran ha fatto sentire sentire la propria voce, Ali Khamenei, Guida suprema iraniana, ha affermato che il potere dei gruppi “di resistenza”, sostenuti da Teheran in Palestina, Yemen, Siria, Libano e Iraq, che si oppongo agli Usa e Israele, è in aumento. “Giorno dopo giorno la forza della resistenza è sempre più evidente”, ha scritto Khamenei in un messaggio scritto in lingua ebraica su X. Sullo stesso social il portavoce del ministero degli Esteri iraniano Nasser Kanani ha commentato il discorso di Netanyahu: “Dopo aver portato avanti un genocidio per nove mesi il primo ministro criminale un regime fasullo viene accolto e abbracciato dai suoi sostenitori”.