Diritti

Centri per il rimpatrio come forni: “40 gradi, frigo rotti, acqua bollente e tentati suicidi: il prossimo dramma? Solo questione di tempo”

Il meteo annuncia una nuova ondata di calore che investirà l’Italia e i media si prodigano nel distribuire i consigli degli esperti. Ma c’è chi non ha alcuna speranza di proteggersi dal caldo, come i detenuti delle carceri sovraffollate che tornano al centro di un’agenda politica da sempre in ritardo sulle loro condizioni. E così le centinaia di reclusi nei Centri di permanenza per il rimpatrio. A finire nei Cpr sono gli stranieri destinatari di provvedimenti di espulsione o di respingimento, ma anche migranti richiedenti asilo quando, ha spiegato il Viminale, “costituiscono un pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica, quando risultino condannati, anche con sentenza non definitiva, per gravi reati o percolo di fuga”. A differenza delle carceri, ci si finisce in base a una disposizione amministrativa, non alla decisione di un giudice terzo, che nel caso dei Cpr opera un controllo formale. Ma le differenze terminano qui. Anzi, spesso il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ha evidenziato condizioni addirittura peggiori di quelle riscontrate nelle carceri. “Un trattamento che non meritano nemmeno gli animali“, ha dichiarato il Garante della Sardegna dopo l’ennesima ispezione. E che invece riguarda almeno 500 persone, chiuse negli otto Cpr attualmente funzionanti, alle quali presto si uniranno quelle che il governo chiuderà nel Cpr del centro di Gjader, in Albania, in base al controverso Protocollo siglato con Tirana.

L’inferno di Milano – Quello che accade nei Cpr esce da lì solo grazie alle ispezioni che parlamentari, consiglieri, associazioni e giornalisti si ostinano a fare, non senza difficoltà, a volte vedendosi negare l’autorizzazione a parlare con i detenuti o peggio, l’ingresso. L’ultimo accesso al Cpr di via Corelli a Milano l’hanno effettuato la settimana scorsa il consigliere regionale Luca Paladini e Nicola Cocco, medico infettivologo della rete Mai più lager – No ai Cpr. Con 46 persone recluse al momento dell’ispezione, il centro è attualmente sotto amministrazione giudiziaria in seguito all’inquietante inchiesta per turbativa d’asta e frode nei confronti dell’ente gestore, Martinina srl, mentre è ancora in corso la gara pubblica per il nuovo appalto. “In questa fase di transizione non c’è nessun visibile cambiamento rispetto al passato”, spiega al Fatto Paladini, alla quarta ispezione nel centro in pochi mesi. “Dal punto di vista delle condizioni igieniche, di quelle sanitarie dei reclusi, di dettagli tutt’altro che secondari come l’acqua fornita in bottiglie di plastica stoccate al sole e distribuite calde o i frigoriferi rotti con i cibi precotti che diventano quasi liquidi, avariati“, racconta. Il tutto mentre i 35 gradi uniti all’umidità spinge la temperatura percepita negli alloggi oltre i 40 gradi e le docce, guaste pure quelle, erogano solo acqua bollente. Così le persone se ne stanno sul cemento del cortile, sulla gommapiuma priva di lenzuola perché quelle fornite sono in fibra sintetica, insopportabili al contatto con la pelle e il sudore (foto). Condizioni che esasperano i presenti, incapaci di accettare che una simile condizione possa essere giustificata da un documento scaduto. E infatti, avverte Paladini, “gli episodi di autolesionismo e i tentativi di suicidio sono all’ordine del giorno” e capite di vedere “persone completamente sedate”. Senza contare che il registro degli eventi critici riflette, come altrove, “un’inadeguata capacità o volontà di segnalare tutto“. Paladini e Cocco hanno inviato un dettagliato rapporto a Questura, Prefettura e Ats per chiedere immediati interventi di verifica sanitaria e non solo: “Ora lo sanno”. E avverte: “Con ogni evidenza il tema non è se potrà succedere un altro evento drammatico, ma quando“.

Cpr di Milano – foto Luca Paladini

Il forno di Macomer – A contendersi il nuovo appalto prefettizio per via Corelli c’è anche la cooperativa sociale Ekene, che già gestisce il famigerato Cpr di Gradisca d’Isonzo in Friuli-Venezia Giulia e quello di Macomer in Sardegna, dove è stata la settimana scorsa il Garante regionale dei detenuti, Irene Testa. Ci era già stata l’anno scorso: “L’aumento di permanenza fino a 18 mesi (deciso dal governo, ndr) per persone che non hanno compiuto alcun reato e nelle condizioni addirittura peggiori di quelle di un carcere è inaccettabile”, aveva relazionato quando nel centro c’erano 38 persone. La settimana scorsa ne ha trovate 49, esposte a temperature ben oltre i 40 gradi: “Un forno“, dice Testa. Come a Milano, “niente frigo, acqua da bere bollente” e le stesse, inutilizzabili lenzuola in TNT. E se per i detenuti delle carceri Testa ha fatto appello al terzo settore e alla società civile perché donare dei ventilatori, per gli “ospiti” del Cpr sa già che è inutile, perché la legge non lo permette. Il regolamento adottato dall’ex ministra Lamorgese impedisce la fornitura di penne, matite, spugne, scope e addirittura sedie. “Tutti sono costretti a stare per terra, nelle celle e nei corridoi dove non circola un filo d’aria”, ha riferito il Garante. Per ripararsi dal sole usano “coperte appese alle finestre. Qualcuno ha chiesto persino il rimpatrio più di una volta, ma nessuno interviene”, ha riferito toccando un altro tasto dolente di un sistema che non rimpatria nemmeno la metà dei reclusi, mentre la maggior parte esce per mancate convalide e decorrenza dei termini, spesso senza che ci sia mai stata alcuna possibilità di rimpatrio. Il bilancio? “Una situazione vergognosa, non degna di un Paese civile“. Già in passato Testa si era trovata di fronte “situazioni schizofreniche, di persone che non dovrebbero neanche stare lì”. E l’impossibilità di contatti con le famiglie: “Non possono usare il cellulare all’interno ed è a loro disposizione un telefono con la scheda telefonica. Ma la maggior parte delle persone ospitate sono povere e nullatenenti, diventa molto difficile poter chiamare all’estero quotidianamente: a queste persone è stato tolto tutto, lasciamogli coltivare almeno gli affetti”.

Manicomio Capitale – Non fa eccezione il Cpr di Ponte Galeria, a sud di Roma, teatro di una nuova rivolta appena ieri, 25 luglio, con ospiti e agenti finiti in ospedale. A visitarlo sono state di recente Cecilia Ferrara e Angela Gennaro, due giornaliste dell’Ansa che ne hanno tratto il nutrito video-reportage intitolato “Il manicomio dei migranti”. Perché “se non sei pazzo, qui lo diventi”, è stato spiegato loro dai reclusi. Il 20% delle presenze arriva dopo aver scontato una condanna in carcere: 229 persone l’anno scorso. Chi ha vissuto entrambe le esperienze non ha dubbi: “Qui è molto peggio”, dice ai microfoni dell’Ansa. Che con una richiesta di accesso agli atti ha ottenuto il registro degli eventi critici, documento obbligatorio e tuttavia lacunoso in tutto il sistema dei Cpr. Il centro dove lo scorso 4 febbraio si è tolto la vita Ousmane Sylla conta un evento critico al giorno e un tentativo di suicidio ogni due. Non solo. Chi tenta il suicidio viene spesso riportato nel centro, che pure non dovrebbe ospitare persone con problemi di carattere psichiatrico. Invece anche a Roma troviamo persone con un profili sanitari incompatibili col trattenimento, come la donna con evidenti problemi mentali trattenuta per nove mesi e costata al governo la censura della Corte europea per i dritti dell’uomo. Lo hanno già evidenziato inchieste e ispezioni parlamentari: in questo centro come in altri si fa largo uso di psicofarmaci. Tra le voci del reportage c’è anche quella di Fabrizio Coresi, esperto migrazioni per ActionAid Italia che, insieme all’Università di Bari, svolge un approfondito monitoraggio sui Cpr, evidenziando che nel 2023 Ponte Galeria ha rimpatriato solo il 23% dei suoi ospiti. Ragionando del centro che l’Italia sta costruendo in Albania, dove si vorrebbero trattenere fino a 3mila persone tra richiedenti con domanda d’asilo da esaminare e persone da rimpatriare, Coresi non ha dubbi: “Il sistema dei Cpr non può che essere esportato così com’è, perché ogni stortura è insita nel modo in cui è concepito”, spiega oggi al Fatto. Con l’aggravante che “sarà ancora più complicato accedere e ispezionare una struttura esterna al territorio nazionale”, spiega, ricordando le difficoltà incontrate dai parlamentari Riccardo Magi e Angelo Bonelli nel tentativo di accedere ai cantieri. “Di conseguenza anche ottenere dati, svolgere un monitoraggio e denunciare cosa accade all’interno risulterà ancora più complicato”.