Non ha suscitato particolare scandalo nella stampa e nella politica il fatto che uno degli elementi fondamentali nella decisione di Joe Biden di ritirarsi dalla campagna elettorale sia stata la sospensione dei fondi di finanziamento a lui indirizzati. 60 milioni di dollari sono stati congelati dai manager e dai ricchi, per convincere il presidente a mollare.

Ho detto che non ha suscitato scandalo, ma è un eufemismo. In realtà il sistema mediatico ha seguito il vortice dei milioni nelle elezioni americane con spensieratezza e favore, come una ricca lotteria o meglio ancora come una scalata in Borsa.

I seguaci di Donald Trump esaltano il pacco di milioni versato da Elon Musk. Quelli che volevano la sostituzione di Biden prima hanno enfatizzato il blocco dei soldi, poi il piovere di essi sulla neocandidata Kamala Harris: scendono dollari sulla vice presidente, arrivano i doni di George Soros, evviva!

L’andamento dei soldi diventa persino più importante di quello dei sondaggi, il consenso a milioni prende il posto di quello a persone. Nel 2015 il democratico Jimmy Carter, eletto presidente nel 1976 e sconfitto da Reagan nel 1980, dichiarò in una intervista alla radio che oramai il sistema politico del suo paese era dominato da una ristretta oligarchia finanziaria e che i soldi decidevano su tutto, sia per i democratici che per i repubblicani. Carter aggiunse che lui stesso non sarebbe mai potuto arrivare alle elezioni presidenziali, se fosse già stato in auge il condizionamento finanziario attuale.

Secondo il Center for Responsive Politics, la campagna per il presidente degli Usa quest’anno raggiungerà il budget complessivo di 14 miliardi di dollari. Ci rendiamo conto, una media finanziaria del nostro paese. Le elezioni presidenziali negli Usa sono il più costoso spettacolo nel mondo, anche perché i soldi non servono solo per fare arrivare lo show ovunque, ma anche per pagare tanti biglietti agli spettatori. È chiaro che questa marea di danaro diventa un muro. Una barriera attraverso la quale passano solo i candidati che sono graditi a chi può spendere milioni per sostenerli.

Sono i grandi ricchi, le multinazionali, le società finanziarie e le banche che decidono chi sia il candidato presidenziale, per entrambi gli schieramenti. Poi certo il popolo può scegliere, ma la vera selezione è già avvenuta. Ad esempio nel passato il muro dei soldi ha sbarrato la via nelle primarie democratiche a Bernie Sanders, che si proclamava socialista di stampo europeo e che i sondaggi davano probabile vincente in una elezione presidenziale.

Negli Usa è previsto il finanziamento pubblico alla politica, ma ovviamente esso fornisce cifre inferiori a quelle dei fondi privati e soprattutto è incompatibile con questi ultimi. Cioè chi si candida deve scegliere se farsi finanziare dal pubblico o dal privato. Ovviamente tutti i candidati scelgono di inseguire i soldi dei ricchi, anche se i fondi pubblici ammontano a ben 300 milioni di dollari.

Se ci vogliono miliardi per diventare presidente degli Usa, le cariche più importanti – governatore di uno stato, senatore, rappresentante alla Camera, sindaco delle grandi città – richiedono milioni e quelle inferiori centinaia di migliaia di dollari, a persona. I politici inseguono i ricchi, i ricchi scelgono quei politici per loro più adatti a concorrere alle cariche istituzionali.

Nel Manifesto del 1848 Marx e Engels definivano il sistema di governo liberale come il “comitato d’affari della borghesia”. Dopo più di un secolo di espansione della partecipazione popolare alla politica, siamo tornati ad allora.

Potrà Trump, se eletto, fare un torto a Musk, o Harris a Soros? Davvero si può credere che i ricchi facciano tutto gratis, che per loro i soldi dati ad un candidato non siano un investimento, che deve avere dei ritorni? E che i politici non conoscano e non accettino questo scambio? Ma certo che no, i grandi oligarchi della finanza sono oggi come i grandi signori feudali, che sceglievano l’imperatore e da cui il sovrano dipendeva per tutto. Sono i miliardari che decidono la classe politica, ovviamente anche in conflitto tra loro, ma mai in conflitto con il loro sistema. Gli scontri presidenziali rispecchiano i conflitti di interessi nell’oligarchia. E a volte anche la composizione di questi interessi.

Nell’Italia berlusconizzata dell’informazione e della politica si segue sfacciatamente, con estasi e invidia, la giostra dei soldi nella scalata alle presidenziali. E questo è solo un ulteriore segno che più si imita il modello degli Usa, più si riduce la democrazia. Che era nata proprio con lo scopo di dare voce e potere a chi non ha soldi e potere. Oggi invece i cittadini alle elezioni sono ridotti alla condizione dei piccoli azionisti di una multinazionale che assistono, speranzosi di guadagno o timorosi di perdite, allo scontro tra i detentori dei grandi pacchetti azionari. Senza poter influire in nulla.

A forza di paragonare lo stato alle imprese private, con l’esaltazione liberista dallo stato azienda, il denaro si è comprato la politica. Non siamo in una democrazia, ma in una denarocrazia.

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