Ho seguito per lavoro quindici Olimpiadi (c’è chi ne fatte dieci e ci ha pontificato sopra…). Scrivo dunque avendo alle spalle accumulato esperienze e competenze, diciamo così, legate ai loro intrecci con la Storia e con la società che esse hanno voluto sempre, in qualche modo, rappresentare. Perciò, mettiamo subito in chiaro una cosa: le Olimpiadi sono una grande mistificazione.

Altro che momenti di tregua per celebrare momenti di gloria (la retorica che tanto piace a chi governa col pugno di ferro, vedi i Giochi di Hitler, quelli boicottati a Mosca nel 1980, le Olimpiadi mastodontiche di Pechino del 2008, i Giochi di Soci vetrina del putinismo…).Tutte, nessuna esclusa – compresa quelle al risparmio di Los Angeles 1932 e la loro replica del 1984 – sono state una sorta di enclave territoriale in cui si sono dipanati i conflitti ideologici e militari, le battaglie politiche e nazionali del contesto internazionale, in cui magnificare, per esempio, le gesta sportive come scontri tra democrazie popolari contro democrazie occidentali, scenario in cui ben si inserisce, purtroppo, anche questa Olimpiade di Parigi 2024, nonostante le buone intenzioni (a parole) di Emmanuel Macron.

Il barone Pierre de Coubertin aveva pensato la resurrezione dei Giochi Olimpici come un periodo di tempo in cui lo sport fosse fuori dalla politica, anzi, contro la stessa politica. Lui credeva nella pace universale dello sport, come una sorta di nuova laica religione e per questo aveva creato piccoli ma significativi riti, ai quali aveva aggiunto le illusioni verbali dei giuramenti. Fin da subito, invece, si affermano come Giochi in cui si manifesta platealmente la superiorità di una nazione sulle altre, di un sistema che escludeva radicalmente gli altri…

Lo stesso de Coubertin, nelle sue Mémoires (pubblicate nel 1931) racconta come i Giochi di Atene del 1898 fossero la palestra del nazionalismo greco, l’occasione cioè per il re Giorgio I di legittimare agli occhi del mondo (in realtà a quello delle poche grandi potenze che accolsero l’appello dei cinque cerchi) la sua dinastia di origine danese e la volontà di unificare il masse greche tramite lo sport. Le prime Olimpiadi dell’epoca moderna furono così in realtà megafono di una propaganda del sentimento filoellenico (ed anti ottomano) che culminò con il discorso inaugurale di re Giorgio il quale dichiarò “aperti i Giochi” in nome di una simbolica pace fra i popoli ma anche celebrando il 65esimo anniversario dell’indipendenza greca. A suggello di infiniti compromessi diplomatici, ci fu la vittoria non senza sospetti di imbrogli del maratoneta Spyridon Louis, un pastore (o un portatore d’acqua, le notizie sono incerte) nato nel 1873 nel villaggio di Amarousio, un sobborgo ateniese. Di sicuro, partecipò alla maratona, osannata come la gara per eccellenza dei Giochi ed organizzata dal colonnello Papadiamantopoulos: corsa che la Grecia desiderava vincere ad ogni costo, ragion per cui vennero organizzate due eliminatorie per mettere in piedi una squadra competitiva.

L’idea era di rievocare l’epica corsa di Filippide che partì da Maratona per raggiungere Atene ed annunciare la vittoria sui Persiani nel 490 avanti Cristo. Il percorso della maratona olimpica era quindi stato ricalcato su quello leggendario: in realtà, dal ponte di Maratona allo stadio Panathinaiko di Atene, ossia 40 chilometri. Solo nel 1921 la lunghezza ufficiale della maratona venne portata a 42,195 km. La gara si svolse il 10 aprile 1898. Spyridon calzava scarpe regalate dai compaesani. Una ventina gli avversari, in gran parte greci, più un ungherese, un francese, uno statunitense ed un australiano. Al chilometro 33 Spyridon raggiunse l’australiano Flack che guidava la corsa e che poco dopo si sarebbe ritirato. Quando arrivò la notizia che un greco era solo al comando, l’entusiasmo al Panathinaiko esplose alle stelle. Appena Spyridon fece il suo ingresso nello stadio, due principi della casa reale greca (Costantino e Giorgio) lo affiancarono in pista e lo accompagnarono sino al traguardo: vinse col tempo di 2 ore 58 minuti e 50 secondi, aveva battuto di sette minuti il favorito connazionale Charilaos Vasilakos, frenato dalla folla che lo acclamava. Spyridon divenne eroe nazionale. L’anno dopo, anche forte del prestigio internazionale acquisito con i Giochi ereditati dalla gloriosa antichità, la Grecia si gettò nelle Guerre Balcaniche contro la Turchia, per rifarsi della cocente sconfitta subìta nel 1897, pochi mesi prima delle Olimpiadi.

Il nazionalismo trionfante della Belle Epoque prese possesso dei Giochi. Nel 1908, a Londra, si impose un altro rituale di stampo nazionalistico: la sfilata degli atleti dietro le loro bandiere. Lo sport sventolava la potenza degli Stati, tant’è che dopo la Prima Guerra Mondiale (in cui morirono centinaia di atleti che avevano partecipato alle competizioni olimpiche) e dopo la Rivoluzione russa, il comunismo negli anni Venti comprese che bisognava contrapporre dei Giochi Internazionalisti: la Spartachiadi (scimmiottando il richiamo al classicismo), per dimostrare che la gioventù “rossa” non aveva nulla di meno di quella “capitalistica”.

In questa competizione fra le competizioni per dimostrare la superiorità dei propri modelli politici, si gettarono i totalitarismi di destra: fascismo, nazismo, imperialismo nipponico, in cui si camuffava il bellicismo con l’agonismo. Nel 1924, il ministero degli Interni giapponese lancia il 3 novembre i Giochi Meiji, dove riunire la gioventù sportiva nel santuario che rievocava luogo e data in cui era stata fondata la dinastia imperiale. Gli sport rappresentati erano l’adattamento alle prove occidentali poiché, fino ad allora, il Giappone privilegiava discipline come il sumo o le arti marziali. Questi giochi annuali si militarizzarono al punto che gli atleti erano chiamati “senshi”, ossia soldati, ed integrare, dal 1939, sotto l’egida del ministero della Salute, prove come il lancio delle granate o battaglie simulate.

Esemplare, in questo senso, la colossale Olimpiade di Berlino, concessa dal Cio ad Hitler nonostante la persecuzione degli Ebrei, degli zingari e degli omosessuali, il che contravveniva ai principii dell’olimpismo. Peggio. L’allora presidente del Cio, l’ineffabile Avery Brundage, dichiarò nel 1934 che “gli Ebrei non possono utilizzare i Giochi come arma per boicottare i nazisti”. Ebbene, quelli berlinesi furono innanzitutto i Giochi dell’ipocrisia e degli occhi bendati. Hitler aveva ordinato nell’ottobre del 1933 che gli atleti tedeschi trionfassero a Berlino: “E’ una priorità nazionale”.

Tutto doveva stupire il mondo. A cominciare dall’efficacia della propaganda, curata personalmente da Goebbels, il quale, alla vigilia dell’inaugurazione, convocò una conferenza stampa per tutti i giornalisti stranieri: “La Germania non nutre che intenzioni pacifiche. Vi chiedo di riprodurre le vostre impressioni sul nazional-socialismo, senza pregiudizi, ed in uno spirito veramente olimpico”. Due anni prima aveva creato un apposito comitato di informazione per i Giochi alle sue dirette dipendenze. Poche ore dopo questa conferenza stampa, Hitler, rientrato da Bayreuth ed ancora commosso per la vigorosa rappresentazione del Crepuscolo degli dei, in piedi nella sua Mercedes da parata, avanzava tra due ali di folla in delirio lungo il vialone che portava allo stadio olimpico, dove l’attendevano centomila spettatori. In cielo, troneggiava un dirigibile, lo Zeppelin Hindenburg. Giunto al palco delle autorità, riceveva da una bimba un mazzo di fiori e da Spyridon Louis, l’ormai mitico primo vincitore della maratona, una corona d’alloro di Olimpia, mentre un’orchestra di mille musicisti suonava il nuovo inno olimpico composto da Richard Strauss. Il Fuhrer, sobriamente, dichiarava aperti i Giochi. Tanto, si sapeva chi li aveva già vinti…

E’ il primo agosto del 1936: mentre in Marocco due corazzate e decine di aerei tedeschi trasportano le truppe di Franco in Spagna, a nord di Berlino si inizia a costruire il campo di concentramento di Sachsenhausen. L’atleta tedesco Fritz Schilgen, sotto gli sguardi di migliaia di camicie brune, percorre il tragitto che lo porterà ad accendere la fiamma olimpica all’Olympiastadion. Furono i tedeschi ad inventare questo spettacolare rituale, curato nei minimi dettagli e ripreso (in modo fantastico, bisogna ammetterlo) dalla regista Leni Riefenstahl – in una sorta di crescente ed incalzante cavalcata walkiriana – sino al momento cruciale in cui il fuoco “sacro” riempie la vasca gigante che rammenta il treppiede sul quale troneggiava la Pizia, sacerdotessa di Apollo che dava i responsi nel santuario di Delfi. Nella capitale tedesca furoreggia l’esposizione “Deutschland” in cui a fianco dell’incunabolo della Bibbia di Gutenberg c’è il primo manoscritto del Mein Kampf. Il 5 agosto Goebbels deplora che la festa olimpica sia rovinata dalla vittoria di un negro: “E’ una vergogna! L’umanità bianca dovrebbe vergognarsi!”. Il reprobo era Jesse Owens, che trionferà quattro volte: “Che altro si meritano da quelle parti, in quel Paese senza cultura!”.

Beffa nella beffa, una decina di atleti ebrei saliranno sul podio. Addirittura, quello del fioretto femminile è tutto “ebreo”: l’ungherese Ilona Elek, la tedesca Helene Mayer (l’unica ebrea per salvare la faccia…) e l’austriaca Ellen Preis. La Mayer, tuttavia, per evitare guai alla famiglia, suo malgrado fa il saluto nazista. Scapperà in Gran Bretagna e poi negli States. I tedeschi, come da desiderio hitleriano, conquisteranno 89 medaglie contro le 56 degli Stati Uniti. L’ideale di de Coubertin è svanito. Le Olimpiadi sono diventate, senza più alcun alibi, un mezzo, un modo per imporre un regime, di qualsiasi natura. Una fiera dei record in cui poter mostrare al mondo la forza di un sistema politico. I primi a capirlo furono gli stessi americani.

La stampa Usa, già nel 1898, scrisse che gli atleti erano dei “missionari”. La loro eccellenza doveva dimostrare la superiorità della democrazia, i vantaggi del melting-pot, e soprattutto il “carattere eccezionale degli Stati Uniti”. Gli Usa riescono ad imporre i loro sport più popolari come discipline olimpiche: basket, football, baseball. Rendono atletica e nuoto, discipline “regine dei Giochi”, perché sono loro che le dominano. Trasformano le star dello sport in star di Hollywood (Jonnhy Weissmuller, Errol Flynn, Esther Williams…). Il loro stile di vita del tempo libero si traduce in nuovi sport come il surf, il beach-volley, la Bmx, la mountain bike ed oggi la breaking dance. Make America Great Again. Nulla di nuovo sotto i cinque anelli.

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