di Sonia Surico

Il 26 luglio non è solo una data sul calendario. È una ferita aperta nella memoria collettiva di chi crede nella giustizia e nella lotta contro la mafia. Ogni anno, questo giorno ci riporta alla mente il tragico destino di Rita Atria, una giovane donna che, a soli 17 anni, decise di rompere il silenzio omertoso della sua famiglia. Un silenzio che, in quel lontano 1992, si infranse tragicamente insieme al suo corpo, lanciato dal settimo piano di un palazzo di Roma.

Rita Atria era una testimone di giustizia, una figura rara e preziosa in un contesto sociale e familiare dove la legge del silenzio regnava sovrana. La sua storia è quella di una ragazza nata e cresciuta a Partanna, un piccolo comune siciliano, dove la mafia era parte integrante del tessuto sociale. Dopo l’omicidio del padre e del fratello, Rita trovò il coraggio di collaborare con la giustizia, riponendo la sua fiducia in due uomini straordinari: i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Il suo gesto di ribellione, tuttavia, la isolò ulteriormente. La sua testimonianza portò all’arresto di diversi membri della mafia, inclusi suoi parenti. Non avrebbe avuto più una famiglia, né un luogo sicuro dove rifugiarsi. Così si trasferì a Roma, sotto protezione, ma il senso di solitudine e abbandono la seguirono ovunque. E poi arrivò quel maledetto 19 luglio 1992, quando una carica di tritolo strappò la vita al giudice Paolo Borsellino, il suo punto di riferimento, il suo ultimo appiglio di speranza.

Pervasa da un dolore insostenibile e un senso di smarrimento incolmabile, Rita si tolse la vita il 26 luglio, una settimana dopo la strage di via D’Amelio. Il suo gesto estremo fu l’ultimo grido di disperazione di una giovane che ormai aveva perso tutto. Le sue parole, scritte con immenso dolore nel suo diario, sono un atto di accusa feroce contro uno Stato che ha fallito nel proteggere i suoi cittadini più coraggiosi. “Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita. Tutti hanno paura ma io l’unica cosa di cui ho paura è che lo Stato mafioso vincerà” scriveva, mettendo in luce la sua disperazione e la sua consapevolezza. Con lucidità disarmante, denunciava non solo la violenza mafiosa, ma anche l’ipocrisia e la complicità di una società incapace di fare i conti con se stessa; le sue parole: “Prima di combattere la mafia devi farti un auto esame di coscienza… la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarsi”.

Rita morì senza il suo punto di riferimento, Paolo Borsellino, consapevole che la sua lotta era destinata a rimanere incompiuta. Ancora oggi, il suo grido d’aiuto risuona violento, un’accusa vibrante contro l’immobilismo di uno Stato che non ha saputo comprenderla, per una giustizia che non è riuscita a salvarla. Una giovane donna che ha pagato con la vita il prezzo della sua integrità.

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