“È stata glaciale nel suo atteggiamento con Netanyahu, ha mostrato una disciplina ferrea e le sue parole sono state un segnale molto chiaro”. Quanto detto in un’intervista a CNN da John Bolton, ex consigliere alla Sicurezza Nazionale, rivela il cambio di tono, e forse di sostanza, di Kamala Harris rispetto a Joe Biden nei rapporti con Israele. Nell’incontro con Benjamin Netanyahu a Washington, la candidata democratica alla presidenza ha chiesto che si arrivi presto al cessate il fuoco e ha espresso “serie preoccupazioni” circa la sorte dei civili della Striscia. Apparentemente, non sembra esserci stato da parte sua un cambiamento di strategia rispetto agli anni di Biden. In realtà, un’evoluzione significativa c’è stata.

In politica estera è spesso questione di sfumature e sono queste sfumature ad essere apparse importanti nel discorso di Harris. La candidata democratica ha iniziato ricordando quando, da ragazzina, raccoglieva denaro per piantare alberi in Israele e ha proseguito sottolineando il proprio “incrollabile sostegno” allo ‘Stato ebraico’, al suo diritto di esistere, alla sua sicurezza. Dopo aver definito Hamas una “brutale organizzazione terroristica”, Harris ha ricordato che 45 cittadini americani sono stati uccisi e 20 presi in ostaggio il 7 ottobre. Quindi, “Israele ha il diritto di difendersi e come lo fa conta”. È stato a questo punto che le parole di Harris hanno preso un tono che sicuramente non è piaciuto a Netanyahu. “Che cosa è successo a Gaza negli scorsi nove mesi è devastante – ha detto – Non possiamo guardare altrove, non possiamo permetterci di restare insensibili. E io non resterò in silenzio”.

Nuova nelle parole di Harris, rispetto a Biden, è stata proprio la sottolineatura delle indicibili sofferenze cui è stato ed è sottoposto il popolo palestinese. Già nel passato la vicepresidente aveva mostrato un’attenzione più marcata alle vittime civili nella Striscia. Quell’attenzione è stata ribadita dopo l’incontro con Netanyahu. Non si tratta solo di sfumature retoriche. Va infatti ricordato che Harris ha evitato di presiedere il Senato, nel suo ruolo di vicepresidente degli Stati Uniti, quando Netanyahu ha parlato davanti al Congresso giovedì. È vero, come ha fatto notare la campagna democratica, che il discorso di Netanyahu coincideva con un evento elettorale di Harris, fissato da tempo. È anche vero che quell’evento, l’incontro con un’associazione di donne nere in Indiana, non era forse tra quelli impossibili da rimandare.

Ci sono poi altri segnali che fanno ritenere che, con Harris, “il tempo della riconsiderazione delle nostre relazioni con Israele è arrivato”, come ha fatto notare il senatore democratico Chris Murphy. Tra questi segnali, c’è per esempio il rifiuto recente da parte di Dean Lieberman, vice consigliere alla sicurezza nazionale di Harris, di rispondere alla domanda se la candidata democratica “sia sionista”. Ecco il giro di frase piuttosto bizantino con cui Lieberman ha evitato di dire che Harris non si ritiene sionista: “Il sostegno a Israele in nessun modo confligge con l’idea forte della vicepresidente che i palestinesi meritino libertà, dignità e auto-determinazione”. È una risposta che differisce nettamente dai continui proclami di Biden, che ha più volte sostenuto di essere un “orgoglioso sionista irlandese”, “più sionista dei sionisti”. Harris del resto appartiene a una generazione di democratici – in questo è sicuramente più vicina a Barack Obama – che ha perso quel senso di vicinanza alla storia e alle sorti di Israele che l’81enne Biden continua a mostrare. La fondazione dello Stato di Israele, i suoi esordi drammatici ed eroici, non sono parte necessaria della formazione politica di Harris.

Questo maggior distacco da Gerusalemme è evidente anche nella scelta di Phil Gordon come advisor alla Sicurezza Nazionale. Gordon ha lungamente viaggiato in Medio Oriente, a partire dal 7 ottobre, mostrando un’attenzione particolare al ruolo dei Paesi arabi nella soluzione della crisi. Ex funzionario dell’amministrazione Obama, nel 2016 Gordon ha anche co-firmato un articolo per il “Council in Foreign Relations”, che inizia così: “La relazione degli Stati Uniti con Israele è in crisi”. Secondo Gordon, gli interessi americani nell’area non coincidono più, in tutto e per tutto, con quelli di Israele. La situazione nella regione è oggi più complessa rispetto al passato, le variabili più numerose e questo porterebbe inevitabilmente a un indebolimento della storica alleanza.

Quanto detto sinora non porta certo a ipotizzare un raffreddamento sensibile nelle relazioni tra Washington e Gerusalemme. Nel caso salisse alla Casa Bianca, Harris erediterebbe una storia antica di rapporti militari, diplomatici, politici, culturali con Israele che i presidenti americani, soprattutto i presidenti democratici, sono tenuti a rispettare. Del resto, Harris mantiene forti legami personali con Israele e l’ebraismo. Suo marito, Doug Emhoff, è ebreo e sta anche in queste settimane mantenendo le relazioni con tutta una serie di gruppi ebraici, dal Jewish Democratic Council of America alle Jewish Women for Kamala. Doug e Kamala hanno fatto un viaggio privato importante in Israele nel 2017, quando Harris era senatrice, e in omaggio alla fede di Emhoff c’è oggi una mezuzah all’entrata della residenza ufficiale della vicepresidente. È la prima volta che succede nella storia degli Stati Uniti.

Harris è però anche la prima che nell’amministrazione ha usato la parola “cessate il fuoco” per Gaza. Harris è colei che, pur condannando le violenze antisemite, soprattutto nelle università, ha anche detto di “comprenderne le emozioni” (tra l’altro Ella, figlia del primo matrimonio di Doug Emhoff, è stata in questi mesi particolarmente attiva nei movimenti pro-Palestina). Soprattutto, Harris è la candidata alla presidenza che sa benissimo che senza i voti degli arabo-americani non può vincere in Michigan. E senza il Michigan, la vittoria contro Donald Trump è impossibile. Joe Biden, nella sua gestione della crisi di Gaza, era parso a un certo punto accettare anche la possibilità di perdere il voto arabo-americano. Harris non lo farà, perché Harris non ha quel tipo di rapporto con Israele. Lo ha detto molto bene al Jerusalem Post, accentuando gli aspetti critici, David Friedman, ambasciatore in Israele durante la presidenza Trump: “Biden ha fatto tanti errori su Israele, ma sul sostegno a Israele non c’è paragone con Harris. La vice appartiene alle frange progressiste del partito che simpatizzano con la causa palestinese”.

È da capire quanto davvero Harris “simpatizzi con la causa palestinese”. Quello che è certo è che un’eventuale presidenza Harris avrebbe su Israele un tono diverso da quella di Biden. Non per forza un tono polemico o di rottura. Sicuramente un tono più distaccato, meno disposto a sostenere sempre e comunque gli interessi israeliani. Netanyahu lo sa molto bene e infatti non ha nemmeno citato Harris nel suo discorso al Congresso e si è precipitato a Mar-a-Lago per ottenere rassicurazioni dall’altro candidato, quello repubblicano, Donald Trump. Netanyahu, che ha sempre avuto un fiuto particolare per tutto ciò che riguarda la sua sopravvivenza politica, sa molto bene una cosa: il suo futuro dipende dalla vittoria di Trump. Nel caso fosse Harris a finire alla Casa Bianca, per lui le cose si complicherebbero pesantemente.

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