La storia della democrazia può essere fatta iniziare e, temo, finire con due omicidi. Uno avvenuto nell’antichità e l’altro nel 1986. Nell’antica Grecia parliamo di Efialte, figura sconosciuta ai più, di origini umili e vero artefice della democrazia nell’annullare i privilegi aristocratici dell’Aeropago. Per questo malvisto da Pericle, suo avversario politico che, stando all’autorevole testimonianza di Plutarco, sarebbe stato il mandante del suo omicidio nel 461 a.C.
Fatto sta che il delitto rimase misterioso e impunito, mentre Pericle divenne il famoso paladino della democrazia. Celebrato dai libri di storia ma, in realtà, a capo di un regime personalistico e demagogico che escludeva dai diritti i due terzi della popolazione (sulla base di censo, etnia e sesso), oltre a condurre una spietata politica imperialistica all’esterno (famigerata la sanguinosa conquista dei Melii narrata dallo storico Tucidide).
Ripercorrere questo episodio, oggi che molti analisti parlano di declino della democrazia occidentale, ci fa comprendere come le cose non sono poi cambiate così tanto lungo i secoli. Sì, perché se da una parte non c’è dubbio che i governi occidentali rappresentano il livello più alto di realizzazione di una democrazia formale, sul piano sostanziale occorre prendere atto di limiti talmente gravi da mettere a repentaglio il prosieguo della civiltà occidentale come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi.
Oggi che il neoliberismo impera e il capitalismo è tornato a fare il bello e cattivo tempo – dopo la caduta rovinosa del socialismo che gli faceva da contraltare – le disuguaglianze economiche, le ingiustizie sociali e i grandi privilegi di una ristrettissima minoranza di popolazione stanno spingendo sempre più cittadini a cercare la soluzione in partiti o movimenti che fuoriescono dalla tradizione democratica occidentale. Non è solo il discorso, pur importante, dello 0,1% della popolazione che è tre volte più ricco della metà più povera del paese (per stare al solo caso italiano), e neppure il fatto collegato per cui ormai meno della metà dell’elettorato si esprime alle elezioni, per evidente sfiducia nelle opzioni politiche in campo e nel sistema democratico nel suo complesso. Insomma, non è una questione soltanto del popolo che mina la democrazia dal basso.
A colpire la democrazia dall’alto c’è il fatto che le poche società che controllano la finanza digitale sono ormai talmente potenti da dettare l’agenda agli Stati e alla politica: lo abbiamo visto in occasione del recente discorso con cui von der Leyen ha ottenuto il secondo mandato (discorso pieno di rassicurazioni rivolte alle big tech sull’indebolimento delle regole europee). Ma lo stiamo vedendo anche in occasione delle elezioni negli Usa (a detta di molti la più grande democrazia occidentale): Elon Musk che finanzia la campagna elettorale di Trump con 45 milioni di dollari al mese, avrà sull’eventuale presidenza del tycoon la stessa influenza che gli altri big della finanza hanno avuto sui democratici perché facessero ritirare Biden. Ovunque nel mondo occidentale i governi fanno a gara per elemosinare qualcosa dai guru miliardari del digitale, chiudendo più di un occhio sull’aggressività delle loro lobby, sugli oltremodo discutibili comportamenti nei confronti dei dipendenti, sulle modalità per evadere le tasse e sulla totale arbitrarietà di rimuovere o censurare contenuti nei social network, di gran lunga il luogo in cui le persone oggi si informano di più rispetto ai fatti della politica e della società.
È in questo contesto di squilibrio totale fra il potere della finanza e quello della politica che, soltanto pochi mesi fa, l’imprenditore informatico Marc Andreessen (anche lui solido finanziatore della campagna di Trump) ha potuto pubblicare un manifesto dai toni antichi ed enfatici, in cui alla maniera della teoria liberista più spinta (in cui vengono esaltati Hayek e Friedman, ma anche Marinetti e Nietzsche) si legge un’invasata esaltazione delle doti del mercato e della tecnologia, che se liberati dai limiti della politica e della cultura sociale sono in grado nientemeno che di potenziare, conferire senso e realizzare il bene dell’umanità al suo massimo grado e per ciascuno dei suoi componenti.
Era una sera di fine inverno del 1986 quando accadeva il secondo omicidio a cui faccio riferimento. Veniva ucciso, anche qui per opera di due sicari rimasti impuniti insieme al mandante, il capo di governo svedese Olof Palme. Uno che si era opposto alla guerra in Vietnam e al regime di Pinochet (sciagurato e drammatico esperimento pratico di neoliberismo realizzato imposto dagli Usa), che aveva denunciato l’apartheid in Sudafrica e difeso alcuni stati socialisti africani. Ma soprattutto, colui che aveva dato vita allo stato sociale che sarebbe stato modello per tutto il mondo, avendo il coraggio di affermare (ultimo capo di stato a farlo per molto tempo) che “il mercato deve essere subordinato alle persone”.
Il resto è storia nota, fino ai giorni nostri. Quelli in cui abbiamo compreso che l’eventuale tracollo del modello democratico potrebbe portare con sé nell’abisso anche la civiltà occidentale nel suo insieme.
Per un approfondimento video delle tesi sostenute nell’articolo, mi permetto di rimandare a questa mia videointervista per Rai Cultura, condotta e realizzata da Francesco Iannello