L’ingresso della casa in provincia di Treviso, dove Maurizio Stecca vive da alcuni anni, è pieno di trofei e ricordi. Nonostante siano esposte anche due cinture di campione del mondo Wbo, oltre a quelle del titolo italiano ed europeo, ciò che al campione rimane più caro è la medaglia d’oro vinta quarant’anni fa ai Giochi Olimpici di Los Angeles. Con addosso la collana che ha come pendolo i cinque cerchi, l’ex pugile Stecca racconta quell’estate americana e la sua carriera. “La gente oggi si ricorda più dell’Olimpiade che del mondiale vinto cinque anni dopo. L’Olimpiade era il mio sogno da bambino, il mondiale è stato un lavoro”.

Cosa le è rimasto di quell’11 agosto 1984 losangelino, quando in Italia era oramai il 12?
Il giorno della finale olimpica me lo ricordo, mi sembra siano passate solo poche ore da allora. In quel momento bisogna saper dare il massimo dopo anni e anni di sacrifici, allenamenti, tornei vinti. Non puoi sbagliare. Il mio obiettivo da sempre è stato l’oro.

In finale si trovò Hector Lopez.
Un messicano di Los Angeles, un diciottenne che voleva passare professionista già prima dell’olimpiade ma alla fine aspettò per vincerla. Si era creata rivalità tra di noi, perché nei turni precedenti ci trovavamo sempre in sala stampa dopo le rispettive vittorie, lui mi sorrideva e io gli facevo il tipico gesto del “ci vediamo dopo”. Nel tunnel prima di entrare nel ring, i miei allenatori erano tesissimi e non aprivano bocca. Io invece ridevo perché quella finale la sentivo come una liberazione, comunque l’ultimo atto dopo anni di lavoro. In attesa dei cartellini dei giudici, il mio avversario si era già messo il cappello messicano per festeggiare. Ma il maestro Falcinelli mi tranquillizzava: hai vinto, hai vinto, scommettiamo la medaglia? La medaglia magari no, ma i guantoni sì… Poi ci fu l’esplosione, quando sentii dall’arbitro Four-one, corner blue Maurizio Stecca.

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Un momento d’oro.
Ero giovane, avevo compiuto 21 anni a marzo, respirare l’ambiente del villaggio olimpico era stato bellissimo. Avevo incontrato i campioni ammirati in tv, Carl Lewis che faceva colazione. Zenga, Ferri e Nela che passeggiavano tranquillamente perché in quel mondo gli sportivi sono tutti uguali. Al palazzetto arrivò anche Jack Nicholson.

Al primo turno aveva affrontato l’irlandese Phil Sutcliffe.
Oggi è un amico. Un pugile che lavorava molto a corta distanza, un combattente vero. Vinsi per verdetto unanime. In diretta Rai il mio compagno di nazionale Francesco Damiani disse che stavo sbagliando tattica, che sprecavo troppe energie. Invece per me già il primo incontro era una finale. Mi sarebbe bastato riposare tra i vari incontri.

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Come proseguì l’avvicinamento alla finalissima dei pesi Piuma?
Star Zulu dallo Zambia aveva braccia lunghe come un ragno, l’ho fregato in velocità, con il colombiano Robinson Pitalua fu un match più tranquillo e ho vinto ancora 5-0. In semifinale trovai il domenicano Pedro Nolasco, uno dei più forti della mia categoria, era un atleta di livello mondiale ma anche lì ho vinto tutte le riprese.

Quando ha cominciato a capire di essere campione olimpico?
Mesi dopo. Appena sceso a Fiumicino presi semplicemente la mia vecchia Renault, comprata con i soldi dei ritiri della nazionale, e me ne andai da solo ad Assisi. Tutto era tranquillo. A settembre mi sposai, festa sul mare con addosso la divisa della nazionale olimpica. Più tardi capii cosa avevo combinato. Oggi tutti mi salutano, in tanti si ricordano quel giorno o gliel’hanno raccontato papà e nonni.

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Quando è entrato in palestra la prima volta?
Ho iniziato a fare la boxe a Rimini nel 1978, solo sei anni prima dell’Olimpiade. Complessivamente ho combattuto 99 incontri da dilettante, gli ultimi cinque quelli di Los Angeles. Gli addetti ai lavori non pensavano fossi favorito per la medaglia, a differenza di Damiani che aveva già partecipato all’Olimpiade di Mosca, lui invece perse la finale con Biggs.

Che bambino è stato Maurizio Stecca?
Ero iperattivo, nato settimino, battezzato due volte, ma quando tornavo dalla palestra, a casa stavo bene. Mi piaceva confrontarmi con gli altri. Mai visto un guantone prima del 1978, dopo tre mesi di pugilato ero già campione italiano. Il maestro era Elio Ghelfi, mio fratello Loris boxava già con lui. Dopo due anni mi ha preso la nazionale e sono andato via da Rimini.

Dopo Los Angeles il passaggio al professionismo.
Firmai una scrittura privata in anticipo per passare professionista con Rocco Agostino. Preso l’oro, Branchini per avermi pagò una penale ad Agostino. In Totip c’era già mio fratello Loris. Nel 1989 vinsi il titolo iridato Wbo. La doppietta olimpiade-mondiale è la cosa più bella, essere in quel gruppo ristretto con Benvenuti, Oliva, Parisi, è un orgoglio immenso.

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Poi in America ci tornò ancora.
Quante avventure negli States, una volta in taxi per andare ad allenarsi in una palestra del Bronx, con Damiani e i due Branchini, scoprimmo delle armi da fuoco nel bagagliaio. Nelle palestre poi si vivevano scene da film, ma noi ci adeguammo subito. Allora la boxe vera era lì in America e non potevamo fare gli schizzinosi o avere paura.

Anche suo fratello Loris è stato campione del mondo.
Loris boxava dalla media e corta distanza in maniera generosa, io invece ero più estroso. Il peso era più o meno lo stesso, in palestra combattevamo tutte le sere, sul ring ci davamo fastidio. Mai affrontati in incontri ufficiali, ma quante volte ci hanno chiamato per fare delle esibizioni!

Sta seguendo l’Olimpiade?
Sì, dal divano nonostante l’invito dei francesi ad essere lì come campione olimpico. Ma alcuni problemi di salute mi costringono a rimanere a casa in questo periodo.

Che ne pensa dei ragazzi azzurri, lei che per tanti anni è stato maestro dei giovani in nazionale?
Aziz Abbes Mouhiidine e Irma Testa: sarebbe bello prendere due medaglie d’oro, una maschile e una femminile. Poi speriamo in un exploit anche di uno degli altri sei. Aziz viene dal karate e si vede nei movimenti, combatte in modo strano, con atteggiamenti che riescono a imbrogliare l’avversario. Perché sul ring non si usa la forza, ma l’intelligenza.

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