Dopo le polemiche, gli scontri tra governo e opposizioni, le accuse alla Commissione europea e i botta e risposta a distanza, a Palazzo Chigi la relazione Ue sullo Stato di diritto non è ancora andata giù. Sono passati quattro giorni dalla pubblicazione del report di Palazzo Berlaymont, lo stesso che era stato stoppato nei giorni successivi alle elezioni, e dopo aver lasciato gli esponenti del suo governo a battagliare a suon di dichiarazioni, con le acque apparentemente calme Giorgia Meloni prende la parola. E lo fa con una lettera inviata direttamente all’ex alleata diventata avversaria, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen: “Cara Ursula, qualche giorno fa, come accade ogni anno dal 2020, la Commissione europea ha pubblicato la Relazione annuale sullo stato di diritto dell’Ue – si legge – Le raccomandazioni finali nei confronti dell’Italia non si discostano particolarmente da quelle degli anni precedenti, tuttavia per la prima volta il contenuto di questo documento è stato distorto a uso politico da alcuni nel tentativo di attaccare il governo italiano. Qualcuno si è spinto perfino a sostenere che in Italia sarebbe a rischio lo Stato di diritto, la libertà di informazione“.
IL MESSAGGIO – La strategia apparentemente rimane fedele a quella degli esponenti di Fratelli d’Italia in Europa: un attacco diretto a stampa e opposizioni colpevoli, a loro dire, di aver travisato il contenuto della relazione. Il partito aveva risposto con una nota nella quale si ribaltava la lettura del report, sostenendo che “il rapporto della Commissione europea sullo stato di diritto è stato ancora una volta l’occasione per una patetica strumentalizzazione da parte delle sinistre. Con buona pace di chi da mesi lancia infondati ‘allarmi democratici‘, il rapporto da un lato evidenzia alcuni importanti passi avanti e dall’altro ribadisce alcune criticità ben note, già espresse anche in passato e ben prima del governo Meloni, in gran parte ereditate dai fallimentari governi a guida Pd e M5s“. L’intervento dell’eurodeputato di FdI Paolo Inselvini in commissione parlamentare per le Libertà Civili, la Giustizia e gli Affari Interni (LIBE) invece faceva trasparire il nervosismo nel partito per la relazione diffusa dal Berlaymont: aveva parlato del rischio che venisse usato come “una clava, un’arma con la quale dividere tra Stati buoni e Stati cattivi in base ai governi che sono più o meno amici della maggioranza che governa in Unione europea”.
E proprio questo sembra essere, velatamente, il tono di Meloni. Per due motivi. Il primo, se il problema della relazione non è il suo contenuto ma “l’uso distorto che ne fanno alcuni”, riferendosi a stampa e opposizioni, rimane da capire perché la lettera della presidente del Consiglio venga inviata alla presidente della Commissione. Secondo, il passaggio nel quale si dice che “per la prima volta il contenuto di questo documento è stato distorto a uso politico” fa emergere l’eccezionalità di ciò che è accaduto, a suo parere, e questo può essere imputabile anche ai relatori del testo.
La presidente del Consiglio, nel suo messaggio, non risparmia invece le accuse nei confronti del lavoro della stampa e delle dichiarazioni delle opposizioni, definendoli “attacchi maldestri e pretestuosi che possono avere presa solo nel desolante contesto di ricorrente utilizzo di fake news che sempre più inquina il dibattito in Europa. Dispiace che neppure la Relazione della Commissione sullo stato di diritto e in particolare sulla libertà di informazione sul servizio pubblico radiotelevisivo sia stata risparmiata dai professionisti della disinformazione e della mistificazione“.
Nella lunga missiva inviata dalla premier ci si concentra esclusivamente sui passaggi che riguardano la libertà dell’informazione in Italia, ma non viene fatto alcun riferimento alla parte, altrettanto corposa, relativa alle criticità evidenziate nel report riguardo alla Giustizia. La lettera prosegue sostenendo che “le critiche che vengono strumentalmente mosse nei confronti del governo riguardano principalmente tre questioni: il fatto che il sistema di governance della Rai non garantirebbe la piena indipendenza del servizio pubblico, che sarebbe soggetto a un’eccessiva ingerenza politica; il fatto che il cambiamento della linea editoriale della radiotelevisione pubblica avrebbe determinato le dimissioni di vari giornalisti e conduttori; l’asserito mancato rispetto della par condicio durante le ultime elezioni del Parlamento europeo”. E invia le sue “precisazioni”: “Sul primo punto, cioè sulle garanzie di indipendenza del servizio pubblico, mi sento di ricordare che la riforma della Rai, che ha disegnato l’attuale sistema di governance dell’azienda, è stata ideata e realizzata nel 2015 dall’allora partito di maggioranza relativa (il Partito Democratico) durante il governo guidato da Matteo Renzi, con la contrarietà del partito da me guidato (Fratelli d’Italia). Se dunque esiste un problema di ingerenza politica dovuta alla normativa esistente, questo non può certo essere imputato a chi quella norma l’ha subita. Soprattutto si tratterebbe di una criticità che si trascina da quasi dieci anni e che avrebbe, nel caso, sfavorito le forze di opposizione, e nello specifico Fratelli d’Italia, e favorito le forze di Governo che hanno governato in questo periodo. Anche l’attuale governance è stata determinata dal governo precedente (Governo Draghi), con Fratelli d’Italia unico partito di opposizione che si è reputato allora di escludere perfino dal Consiglio di Amministrazione della Rai creando, questa volta sì, una anomalia senza precedenti in Italia e in violazione di ogni principio di pluralismo del servizio pubblico. È bene ricordare che, salvo la nomina obbligata di un nuovo Amministratore Delegato nel 2023 a seguito delle dimissioni del suo predecessore, l’attuale Governo e la maggioranza parlamentare che lo sostiene non si sono ancora avvalsi della normativa vigente per il rinnovo dei vertici aziendali. Gli attuali componenti del CdA della Rai, come ricordato, sono stati nominati nella scorsa legislatura da una maggioranza di cui Fratelli d’Italia non era parte. Non si comprende dunque come si possa imputare a questo governo una presunta ingerenza politica nella governance della Rai”.
Meloni passa poi a rispondere sul secondo punto: “Riguardo il secondo punto, sarebbe a dire il fatto che il cambiamento della linea editoriale della Rai avrebbe determinato le dimissioni di diversi giornalisti e conduttori, è di tutta evidenza, anche in ragione di quanto espresso in precedenza, che si tratti di una dinamica che in ogni caso non può essere imputata all’attuale governo. Nel merito, diversi esperti del campo affermano che i rapporti di lavoro si sono interrotti per normali dinamiche di mercato; alcuni di questi conduttori hanno lasciato la Rai prima dell’arrivo del nuovo AD e altri hanno deciso di percorrere nuove esperienze professionali o editoriali, pur avendo l’azienda confermato i loro spazi di presenza nei palinsesti”.
E infine il terzo punto: “Ancora più strumentale appare la critica del terzo punto in base alla quale la Rai avrebbe violato le regole della par condicio in favore della maggioranza di governo durante le ultime consultazioni per l’elezione dei membri del Parlamento europeo. Anche su questo argomento, mistificato a uso politico, occorre chiarire alcuni aspetti. A ridosso delle elezioni europee del 2024, la Commissione parlamentare Vigilanza Rai, nell’esercizio delle sue prerogative, ha adottato una delibera – dichiarata peraltro dall’Agcom conforme alla disciplina vigente in materia – che prevedeva l’esclusione dalle regole della par condicio dei rappresentanti delle istituzioni che affrontavano questioni inerenti alle loro funzioni istituzionali. Non si tratta di una novità. Infatti, durante ogni passata competizione elettorale, tutti i governi in carica hanno potuto legittimamente continuare a informare i cittadini sulla loro attività, senza che l’informazione istituzionale rientrasse nel conteggio dei tempi della par condicio, così come previsto dalla legge vigente. Viene da chiedersi perché questo principio, che si è sempre reputato valido in passato, non debba valere per l’attuale governo”.
IL NODO GIUSTIZIA – Ciò che invece la premier non cita, come detto, è il capitolo che riguarda le critiche dei relatori europei sulla Giustizia, nonostante abbiano provocato, sempre indirettamente, anche la reazione del ministro Carlo Nordio che ha parlato di “fake news sul report Ue”, sostenendo che l’esecutivo è stato “premiato per la digitalizzazione”, anche se l’Italia è ultima. Anche lui ha ignorato le critiche mosse nei confronti delle sue riforme, eppure ci sono state. “In Italia, una nuova legge che abroga il reato di abuso d’ufficio e limita la portata del reato di traffico d’influenze potrebbe avere implicazioni per l’individuazione e l’investigazione di frodi e corruzione“, si legge ad esempio nel rapporto. E si spiega che il governo italiano ritiene “che solo una frazione di tutti i procedimenti penali correlati per abuso di ufficio pubblico si concluderebbe con una condanna, il che dimostrerebbe l’inefficacia della criminalizzazione di tale comportamento, se confrontata con le risorse amministrative e finanziarie investite nello svolgimento delle relative attività procedurali. Inoltre, il governo sostiene che il reato ha un effetto paralizzante sulle pubbliche amministrazioni e altri reati di corruzione forniscono un quadro legislativo sufficientemente forte per contrastare gli atti che minano l’imparzialità e la corretta condotta della pubblica amministrazione”. La commissione Ue, però, ricorda quello che alcuni addetti ai lavori – come la professoressa Marina Castellaneta, intervistata dal Fatto Quotidiano – hanno più volte cercato di spiegare al ministro Nordio: abolire l’abuso d’ufficio equivale a violare un obbligo internazionale. “Tuttavia – si legge nel Rule of Law – la criminalizzazione dell’abuso d’ufficio e del traffico di influenze fanno parte delle convenzioni internazionali sulla corruzione e sono quindi strumenti essenziali per l’applicazione della legge e l’azione penale per combattere la corruzione”. Gli interlocutori della commissione hanno anche sottolineato, continua il report, che “l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio potrebbe portare a livelli inferiori di individuazione e indagine di frode e corruzione. Inoltre, la riduzione della portata del reato di traffico di influenze dovrebbe essere controbilanciata da norme più severe in materia di lobbying”.