Politica

Vent’anni dalla fine del servizio militare obbligatorio: i motivi sono più validi oggi di allora

Il 29 luglio 2004 veniva licenziato dalla Camera dei Deputati il disegno di legge che anticipava di due anni la sospensione del servizio militare obbligatorio (previsto dall’art. 52 Cost.) già decisa con una legge del 2000. Per questo motivo, ricorrono oggi i vent’anni dalla “fine della leva”.

La cosiddetta legge Martino (dal nome dell’allora ministro della Difesa), approvata con ampia e trasversale maggioranza nell’agosto 2004, accantonò la coscrizione obbligatoria – alla quale si potrà fare ancora ricorso in casi eccezionali (come lo stato di guerra o la presenza di crisi particolarmente gravi) che rendano necessario un poderoso incremento degli organici – e diede il via alla completa professionalizzazione delle Forze Armate italiane. La riforma, frutto di un lungo dibattito politico partito negli anni Ottanta, rispose a chiare esigenze di “efficientamento”: l’esercito di leva, seppur integrato da un rilevante nucleo di militari di carriera e volontari, appariva ormai uno strumento anacronistico, soprattutto per la difficoltà di affidare sistemi d’arma sempre più moderni e sofisticati a personale non adeguatamente specializzato.

Nel 2004 si interrompeva così la lunga storia della naja che, istituita nel neonato Regno d’Italia, era stata riconfermata nella nascente Repubblica con l’idea che la guerra difensiva (unica guerra ammissibile secondo l’art. 11 Cost.) richiedesse un esercito costituito da cittadini-soldati. Alla leva obbligatoria va senza dubbio riconosciuto il merito di aver contribuito ampiamente alla formazione di una identità nazionale. Essa ha svolto cioè una fondamentale funzione di amalgama sociale: fu grazie al servizio militare che milioni di italiani scoprirono di essere tali, impararono la lingua italiana, uscirono dall’orizzonte circoscritto della regione d’origine e cominciarono a interessarsi di questioni sociali e di politica.

A vent’anni di distanza, le ragioni che indussero a optare per un modello di esercito professionale sono ancor più valide di allora: i conflitti bellici moderni esigono infatti strumenti militari di elevato profilo qualitativo, dotati di personale ben addestrato e motivato, nonché capaci di integrarsi rapidamente in complessi multinazionali. La marcata tecnologizzazione rende decisiva la preparazione tecnica dei soldati e molto meno utili gli schieramenti militari quantitativamente ampi. A questo argomento, si aggiunge la constatazione odierna che la guerra, per noi europei, non rappresenta più come in passato una prospettiva remota.

Possiamo anche ripetere, con le parole di Omero, che polemos kakos, che la guerra è un male, salvo poi dover ammettere che si tratta di un male in larga misura inevitabile.