A pochi giorni dal terzo anniversario del disastroso ritiro dall’Afghanistan da parte del contingente statunitense e dal concomitante ritorno al potere dei Talebani, la Cina ha avuto modo di mostrare quanto il suo pragmatismo diplomatico stia dando i frutti sperati. A circa 40 chilometri da Kabul, il 24 luglio si è tenuta la cerimonia ufficiale di avvio dei lavori per lo sfruttamento da parte di Pechino di quello che è il secondo deposito di rame conosciuto al mondo. Alla presenza di membri di spicco del regime talebano e di uomini d’affari e personalità diplomatiche afferenti alla Repubblica Popolare, il nastro è stato tagliato dando il via alle prime opere relative alla miniera, in questo caso una strada per consentire il movimento dei macchinari.

Il progetto è tutt’altro che nuovo e la sua storia è indicativa di quanto difficoltoso sia operare nel Paese asiatico, Talebani o meno. L’accordo trentennale di sfruttamento a favore di Pechino risale addirittura al 2008, ma i lavori sono iniziati solo ora per le turbolenze – per usare un eufemismo – che negli ultimi anni hanno martoriato l’Afghanistan e la sua popolazione. L’intesa ha un controvalore pari a circa 3 miliardi di dollari e si prevede che le prime estrazioni di rame dal deposito non avverranno prima del 2026. Il fatto che la situazione si sia sbloccata proprio in questo momento è legato, da un lato, all’assoluta necessità per il movimento fondamentalista di mostrare la propria capacità di portare benefici per i cittadini afgani, dall’altro al fatto che il rame rappresenta sempre più un elemento strategico, fondamentale per la produzione di componenti elettronici per esempio veicoli elettrici o impianti di energia rinnovabile.

Le autorità cinesi sono consapevoli che il sostanziale abbandono del teatro afgano e regionale da parte di possibili contendenti come Stati Uniti e Paesi europei può porre Pechino in prima fila. E la Repubblica Popolare ha tutto l’interesse a rappresentare agli occhi dei Talebani uno dei partner economici principali: secondo alcune stime, l’Afghanistan dispone di una ricchezza mineraria – fatta anche di litio, oro e ferro – per un controvalore pari a mille miliardi di dollari. Un forziere su cui la Cina potrebbe mettere le mani a fronte di investimenti non così ingenti, considerando la fame di entrate del regime di Kabul. La strategia cinese non esclude alcun ambito. A settembre 2023, la Repubblica Popolare è stato il primo Paese al mondo a nominare un ambasciatore a Kabul. Un favore ricambiato dopo pochi mesi quando, a gennaio scorso, Pechino ha ufficialmente accettato il nuovo ambasciatore afgano sul suolo cinese, espressione del governo guidato dal movimento fondamentalista. Una mossa da vero equilibrismo, considerando che la Cina, in questo totalmente allineata alla comunità internazionale, non riconosce il regime che governa sull’Afghanistan.

A rovinare un quadro che potrebbe sembrare fin troppo roseo e a favore delle mire cinesi, vi sono però tutti i rischi che un’esposizione significativa sul territorio afgano potrebbe far correre alla Cina sul fronte della sicurezza. In questo a far scuola potrebbe essere il Pakistan, interessato ormai da anni da ingentissimi investimenti infrastrutturali cinesi, sotto l’alveo del progetto Nuove Vie della Seta. Le opere che Pechino sta realizzando e i lavoratori che manda in Pakistan sono però sempre più oggetto di attacchi, siano essi compiuti dal Movimento Separatista del Belucistan o da altri gruppi radicali. L’ultimo caso è avvenuto a marzo, quando un’autobomba nel nord del territorio pachistano ha causato sei vittime, di cui cinque ingegneri cinesi. Nella stessa zona, nel 2021, un altro attentato causò la morte di tredici persone, tra cui nove cittadini cinesi. Queste continue tensioni e la situazione sempre più compromessa sul fronte economico del Pakistan hanno portato la Cina a riconsiderare i propri investimenti nel Paese e a tirare temporaneamente il freno.

Come detto, il rischio per Pechino è che lo scenario pachistano si ripeta in Afghanistan. Non è un caso, quindi, che la cerimonia si sia tenuta tra misure di sicurezza eccezionali, per evitare possibili violenze. Agli occhi delle autorità cinesi, gli investimenti compiuti sul territorio afgano hanno una doppia valenza: da un lato, ottenere vantaggi economici sotto forma di accesso a risorse minerarie ingenti a buon mercato e lo sfruttamento dell’Afghanistan dal punto di vista geografico e logistico. Dall’altro, forse ancora più importante, Pechino spera che l’iniezione di denaro verso Kabul contribuisca a rafforzare il regime dei Talebani, visto dalla Repubblica Popolare come il miglior garante della stabilità interna. Non solo: avere dalla propria parte il movimento fondamentalista che regna sulla popolazione afgana riduce agli occhi della Cina la possibilità che quest’ultimo possa attivamente sostenere o anche solo ispirare i militanti uiguri attivi nello Xinjiang, regione cinese a maggioranza musulmana posta sotto duro controllo da parte del governo centrale. Come spesso accade, quindi, economia e politica vanno di pari passo quando a muoversi è il gigante asiatico.

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