I Mondiali di calcio del Qatar sono terminati un anno e mezzo fa, ma c’è ancora un problema irrisolto: i mancati risarcimenti per lo sfruttamento del lavoro migrante. Un tema che si riproporrà anche per il campionato del 2034: unica candidata, l’Arabia Saudita.
Di questione aperta però ce n’è anche un’altra: la detenzione di Abdullah Ibhais, un giordano padre di due figli che lavorava nel settore comunicazione del comitato organizzatore, finito nei guai proprio dopo che aveva denunciato le condizioni di lavoro equiparabili a schiavitù moderna dei lavoratori migranti impegnati nella costruzione degli stadi e delle infrastrutture sportive, logistiche e commerciali.
Nell’agosto 2019 un gran numero di lavoratori migranti intraprese uno sciopero per chiedere gli stipendi cui avevano diritto e che non avevano mai ricevuto. Ibhais informò il comitato organizzatore che diversi di loro erano impegnati nella costruzione degli stadi che, tre anni dopo, avrebbero ospitato le partite del Mondiale di calcio. Suggerì, per un tema di reputazione oltre che di giustizia, che si riconoscesse la situazione e si rimediasse. La risposta ricevuta fu per lui del tutto inaspettata: il comitato organizzatore denunciò Ibhais alla polizia sostenendo che fosse coinvolto in un giro di tangenti per mettere in pericolo la sicurezza dello stato.
Per quella ragione, nel novembre 2019 venne arrestato. Uscì dal carcere un mese dopo, dietro pagamento di una cauzione. Nell’aprile 2021 Ibhais è stato condannato a cinque anni di carcere, ridotti a tre nel processo d’appello, celebrato nel novembre dello stesso anno. Nel settembre 2021 il detenuto si è rivolto alla Fifa attraverso la sezione del suo portale riservata ai whistleblower. Due mesi dopo, la Fifa ha risposto che “ogni persona merita un processo equo” e che avrebbe “continuato a seguire da vicino il caso”. Poi più nulla.
Amnesty International, FairSquare e Human Rights Watch si stanno occupando di questa storia sin dall’inizio. A loro si è aggiunto il Gruppo di Lavoro delle Nazioni Unite sulle detenzioni arbitrarie che, in una decisione ufficiale di 13 pagine adottata a maggio, ha concluso che: non c’era alcuna base giuridica per la detenzione di Ibhais; la privazione della sua libertà era derivata esclusivamente dall’esercizio dei suoi diritti umani; c’erano state molteplici violazioni del diritto a un processo equo, tra cui il rifiuto di prendere in considerazione le denunce dell’imputato di essere stato costretto ad autoincriminarsi, il diniego dell’assistenza legale e, infine, il diniego del diritto ad accedere alle prove a suo carico.
Come da prassi, il Gruppo di lavoro ha dato al governo del Qatar due mesi di tempo per replicare. Non avendo ricevuto alcuna risposta, ha reso noto il documento, sollecitando le autorità qatarine a “scarcerare il signor Ibhais e garantirgli il diritto a un risarcimento e ad altre forme di riparazione, secondo quanto previsto dal diritto internazionale”. La fine della pena di Ibhais è prevista a ottobre ma, poiché il tribunale ha imposto anche la pena accessoria di una multa di 150.000 rial (pari a oltre 40.000 euro), se egli non fosse in grado di pagarla potrebbe rimanere in carcere fino ad aprile del 2025.