Questa mattina a Scampia nella piazza Grandi Eventi, ribattezzata piazza Ciro Esposito in memoria del tifoso del Napoli ammazzato da un fascista romano durante la finale di Coppa Italia tra Napoli-Fiorentina del 2014, si sono svolti i funerali delle tre vittime della tragedia della Vela Celeste. Un dolore insanabile anche perché quella tragedia è stata annunciata almeno 40 anni fa. Vogliamo usare lo spazio che abbiamo su Il Fatto Quotidiano per condividere e diffondere la lettera aperta scritta da Giuseppe Finaldi, presidente del Caffè letterario di Scampia.

La condanna di un ballatoio dimenticato.

Il groviglio di dolore, rabbia, impotenza, frustrazione, rassegnazione, fatalismo, indigenza, ribellione, solidarietà, condivisione, impegno civile, amore che caratterizza Scampia e la innerva tutta è riemerso dall’oblio martedì notte, ai primi piani della vela Celeste, dove si è consumata l’ennesima, “attesa” tragedia. Sì, “attesa”.

La vita umana è sempre in bilico, ovunque. Qui, a Scampia, la sua precarietà e fragilità è più profonda, si avverte sulla pelle quando ci si aggira tra i suoi viali autostradali, deserti di umanità, tra i suoi enormi edifici raccolti in blocchi, come in un campo di concentramento, tra tanta bruttezza e trascuratezza allineate come in un museo del peggio. Si vive in una drammatica costante apnea personale e sociale. Basta un niente e sopraggiunge la sventura.

C’è, in verità, un cordone di protezione a cui aggrapparsi, fatto di parrocchie, associazioni, donne e uomini di buona volontà che lavorano incessantemente per far nascere fiducia, relazioni, convivenza civile, cultura, cultura dei diritti, legalità, libertà e bellezza. Ma questo cordone non può sostituire lo Stato, la comunità politica organizzata che ha per fine di offrire ad ogni donna, uomo, bambino o vecchio le migliori condizioni per vivere dignitosamente e provare a essere felice con gli altri. Qui, a Scampia, questo Stato è assente, latita, è distratto, ha sempre altro da fare. E le sventure e le morti si susseguono inesorabilmente perché i tempi delle risposte politiche ai problemi di un quartiere nato “non voluto”, “non pensato”, “per errore”, fragilissimo, sono tardive. Sempre tardive, rispetto “al-di-più” del desiderio di vita che trabocca dalle sue desolate vie.

Scampia è, suo malgrado, un luogo dove si addensano molte contraddizioni, ne diventa paradigma, come mostra la fertilità dell’ispirazione che fornisce a tanti scrittori, poeti, artisti. Groviglio emblematico di un Paese in declino che proprio non riesce, da decenni, a dipanare i suoi nodi (sempre gli stessi: lavoro, casa, istruzione, salute, trasporti, uguaglianza, giustizia …). Ora, gli occhi del mondo sono puntati sulla tragedia. Le parole abbondano, ma non restituiranno la vita agli innocenti, non leniranno il dolore immenso di chi resta, non raddrizzeranno gli esili steli delle vite dei piccoli, spezzati dal vento ingiusto di una storia sbagliata. Quanti sguardi smarriti?

Riecheggia in me, e spero nel cuore di molti, la “Parola” evangelica tante volte ascoltata: “Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà una pietra? O se gli chiede un pesce, gli darà al posto del pesce una serpe? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione?”. “Parola” che martedì 22 luglio alle ore 22,40 col fragore di quel dannato ballatoio dimenticato è stata declinata in condanna: quale padre tra voi, se il figlio gli chiede una casa, gli darà una tomba?

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