di Dalia Ismail*

“Questo è un messaggio per tutto il Medio Oriente”, ha scritto in arabo sul suo profilo X Amir Ohana, portavoce della Knesset, pubblicando l’immagine dei serbatoi di petrolio nel porto di Hodeidah, il principale porto yemenita sul Mar Rosso, in fiamme, dopo averli bombardati sabato 20 luglio.

I jet da combattimento israeliani hanno bombardato strutture vitali nella città, concentrandosi principalmente sui serbatoi di petrolio nel porto, causando grandi incendi e uccidendo almeno tre persone e ferendone 87, secondo quanto riportato dalla Reuters. Il porto di Hodeidah, fondamentale per lo Yemen in quanto principale punto d’ingresso per commercio e aiuti, è stato gravemente danneggiato. Israele ha dichiarato di aver colpito anche posizioni militari, ma gli Houthi hanno affermato che gli attacchi hanno colpito esclusivamente strutture civili. Concentrandosi sul settore petrolifero e degli idrocarburi, Israele ha voluto paralizzare le infrastrutture vitali del paese.

Il tweet di Ohana è un messaggio chiaro: l’intero Medio Oriente non deve cercare di opporsi a Israele o ostacolare la guerra genocida contro il popolo palestinese. In caso contrario, le conseguenze saranno severe e i costi molto elevati per tutti.

Potere e punizione: la deterrenza di Israele

I docenti israeliani Efraim Inbar e Shmuel Sandler, nell’articolo accademico Israel’s Deterrence Strategy Revisited del 1994, sostengono che la politica di deterrenza di Israele fa parte della sua identità come potenza. Fin dalla sua nascita, Israele ha avuto come obiettivo quello di dissuadere i suoi vicini dall’attaccarlo, così che, col tempo, avrebbero capito l’inutilità della forza militare e avrebbero accettato il suo colonialismo di insediamento.

Per raggiungere questo obiettivo, Israele ha adottato strategie offensive sistematiche, sfruttando il proprio vantaggio in termini di potenza militare. Queste operazioni comprendono attacchi preventivi e rappresaglie punitive per scoraggiare futuri attacchi. La strategia di deterrenza di Israele combina sia la prevenzione che la punizione, talvolta utilizzando mezzi convenzionali che infliggono danni significativi alle forze militari e alle infrastrutture, di modo da rendere impossibile ai suoi nemici di funzionare e di organizzarsi.

Le offensive di Israele contro i nemici che intende paralizzare sono sempre sproporzionate rispetto agli attacchi che subisce. Questa strategia viene chiamata “Dottrina Dahiya”, che ha l’obiettivo di infliggere perdite molto gravi per creare un danno militare e psicologico duraturo.

Israele e il fallimento nel ripristinare lo status quo

Il 7 ottobre ha segnato una svolta cruciale nella storia della sicurezza israeliana, demolendo il mito della sua capacità di deterrenza. L’attacco coordinato dalle milizie palestinesi ha rivelato gravi falle nelle reti di intelligence israeliane, dimostrando che, nonostante siano sottoposte ad un feroce assedio da 17 anni, possono colpire in profondità il territorio israeliano.

Secondo diversi analisti, come Tareq Baconi, presidente del consiglio di amministrazione del think tank Al-Shabaka, il 7 ottobre ha fatto crollare la deterrenza di Israele, ovvero il potere di incutere un elevato timore nel nemico, al punto di dissuaderlo dall’attaccare per paura di subire punizioni e rappresaglie.

Nonostante la guerra genocida contro il popolo palestinese condotta da Israele in questi 10 mesi, che ha portato a una devastazione tale che, secondo le Nazioni Unite, almeno 16 anni saranno necessari per ricostruire le case delle persone, a una carestia e a una malnutrizione che colpisce la maggior parte della popolazione, al numero di bambini assassinati che, secondo le stesse Nazioni Unite, dopo cinque mesi aveva già superato il numero di bambini uccisi in qualsiasi altro conflitto nel mondo negli ultimi quattro anni, e ai più di 186.000 morti ipotizzati dalla prestigiosa rivista scientifica The Lancet, Israele non è riuscito a ristabilire la sua immagine di invincibilità militare, subendo una sconfitta strategica significativa.

L’attacco degli Houthi a Tel Aviv, successivo all’attacco diretto dell’Iran della notte del 13 aprile, ai continui attacchi di Hezbollah dal Libano meridionale e a quello del 7 ottobre, è una dimostrazione di come il timore nei confronti di Israele degli stati e degli attori politici regionali sia notevolmente calato.

Israele sembra non avere un obiettivo militare specifico in questa guerra che sta conducendo su più fronti. Israele sta compiendo massacri e infliggendo punizioni collettive a tutti coloro che cercano di contrastare la sua occupazione della Palestina e il genocidio che sta portando avanti nella Striscia di Gaza. Quando dice “questo è un messaggio per l’intero Medio Oriente”, intende dire: “qui comando io e, se provate a cambiare lo status quo, la pagherete cara”.

*Giornalista italo-palestinese, 27 anni, sto concludendo un master di ricerca in sicurezza internazionale all’università di Groninga, nei Paesi Bassi

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