Da Pechino la capa dell'esecutivo attacca il nostro giornale e altri quotidiani, accusandoli quasi di avere ispirato la Relazione sullo Stato di diritto della Commissione Ue. Pur di liquidare le contestazioni sulla libertà di stampa come critiche di "giornali nemici", infatti, la presidente del consiglio fa riferimento al documento sbagliato
Se c’è un problema di libertà di stampa del nostro Paese, la responsabilità non è delle autorità governative, ma dei giornalisti che criticano l’operato dell’esecutivo. A pensarla in questo modo è Giorgia Meloni. Un punto di vista che la premier sostiene, tra l’altro, facendo riferimento al documento sbagliato: scambia il Rule of law, la Relazione sullo Stato di diritto diffusa ogni anno dalla Commissione Europea, con il report sulla libertà d’informazione del consorzio Media Freedom Rapid Response. Lo fa da Pechino, dove interviene per commentare la lettera che ha inviato due giorni fa a Ursula von der Leyen. Una missiva in cui la capa dell’esecutivo si lamentava per il contenuto del Rule of law, il rapporto sullo Stato di diritto. Anzi, per la verità, le proteste di Meloni riguardavano solo un paragrafo di quella relazione. Ma andiamo con ordine.
L’accusa ai giornali – Da giorni Meloni sembra tradire nervosismo in relazione alle critiche contenute nel dossier Ue. Contestazioni che riguardano soprattutto le riforme della giustizia penale. Nella sua missiva indirizzata a Bruxelles, però, la premier ha ignorato qualsiasi critica relativa alle norme firmate dal ministro Carlo Nordio, protestando soltanto per la parte della relazione relativa all’indipendenza della governance Rai. Interpellata su questo fronte durante un punto stampa nella capitale cinese, la capa dell’esecutivo ha sostenuto che nel rapporto “la Commissione Europea riporta accenti critici di alcuni portatori di interesse, diciamo stakeholder: il Domani, il Fatto Quotidiano, Repubblica…”. Un’affermazione che non corrisponde alla verità, per almeno due motivi.
Che cosa c’è (davvero) nel report Ue – Intanto perché non è vero che Il Fatto ha partecipato alla stesura di alcun dossier. Nella Relazione sullo Stato di diritto, infatti, tra le organizzazioni ascoltate dalla commissione Ue non ci sono quotidiani ma interlocutori istituzionali: per la parte relativa alla stampa sono citati l’Ordine dei Giornalisti, Ossigeno per l’Informazione, la Rai, l’Agcom, la Federazione Europea dei Giornalisti, l’International Press Institute, Reporter senza frontiere, il Free Press Unlimited. Tra le fonti documentali citate nel rapporto, invece, non compare nessun articolo dei giornali citati dalla premier, ma solo tre pezzi del Corriere della Sera e uno di Avvenire: si tratta d’interviste al ministro Guido Crosetto, a Salvatore Casciaro e ad Alessandra Maddalena, segretario e vicepresidente dell’Associazione nazionale magistrati.
Le differenze tra i due rapporti – Perché dunque Meloni attacca Il Fatto e altri giornali spacciandoli quasi come gli ispiratori del dossier Ue? Semplice, la premier arriva a confondere il Rule of Law pubblicato dalla Commissione Ue il 23 luglio, con il report del consorzio europeo Media Freedom Rapid Response, diffuso appena 24 ore fa. Le differenze tra i due documenti sono sostanziali. A cominciare dagli autori: la Commissione Ue è il massimo organo istituzionale comunitario, che con la sua Relazione sullo Stato di diritto valuta i sistemi giudiziari e informativi dei Paesi membri, avanzando ogni anno specifiche raccomandazioni per ogni Stato. Lo fa dal 2020 e in passato ha crticiato le riforme di altri governi diversi da quello di Giorgia Meloni. Il Media Freedom Rapid Response, invece, è un consorzio formato dalla Federazione dei Giornalisti europei, dall’Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa, da Article 19 Europe, dall’European Centre for Press and Media Freedom e dall’International Press Institute. Si occupa, tra le altre cose, di tracciare le violazioni della libertà di stampa negli Stati membri grazie al Mapping Media Freedom, una piattaforma di monitoraggio che ha registrato un picco di segnalazioni da quando Meloni è entrata a Palazzo Chigi. Alert relativi soprattutto a querele temerarie, cioè le cause per risarcimento danni intentate contro i giornalisti con fini intimidatori, presentate da esponenti della maggioranza di governo.
Il report sulla libertà di stampa – Come si fa a raccontare le pressioni subite dai media senza ascoltare i giornalisti? È quello che ha fatto il consorzio il 16-17 maggio scorso, durante una missione speciale in Italia. La delegazione del Media Freedom Rapid Response ha incontrato 11 giornalisti, anche di testate diverse da quelle attaccate da Meloni: l’elenco è allegato al rapporto, in modo assolutamente trasparente, come sempre accade nei report di questo tipo. Il consorzio ha ascoltato anche diversi interlocutori istituzionali (dai parlamentari di opposizione all’Ordine dei giornalisti e all’Agcom), ma nessun esponente della maggioranza. Il motivo? Semplice: gli esponenti della coalizione che appoggia Giorgia Meloni si sono rifiutati di vedere la delegazione. “Nonostante numerose richieste di incontro, purtroppo tutte le richieste sono rimaste senza risposta”, si legge nel report. Non era mai successo che un governo si rifiutasse di incontrare la delegazione in missione. “Tali rifiuti illustrano la mancanza di volontà del governo di impegnarsi in discussioni costruttive su sviluppi chiave relativi ai media che alla fine influenzano la qualità della democrazia italiana”, prosegue il rapporto. Dunque: prima i ministri, i sottosegretari e i parlamentari della maggioranza di Giorgia Meloni si sono rifiutati d’interloquire col Media Freedom Rapid Response. Poi, però, la premier ha contestato il contenuto del rapporto del Mfrr (seppur confondendolo con il dossier della commissione Ue), accusando il consorzio di riportare solo le accuse di alcuni giornali che considera nemici.
Il caso dell’agenzia Agi – Nel dossier, tra le altre cose, si affronta anche il caso del possibile acquisto dell’agenzia Agi da parte di Antonio Angelucci, parlamentare della Lega, ma anche imprenditore attivo nel settore delle cliniche private e dell’editoria: negli ultimi anni ha collezionato i principali quotidiani storicamente vicini al centrodestra. Questa potenziale vendita, sostengono dal consorzio, “avrebbe implicazioni più ampie su un pluralismo dei media già fragile e su un ambiente di concentrazione della proprietà in Italia, e rappresenterebbe un ulteriore esempio di un chiaro conflitto di interessi di un politico proprietario di media”. Nel report, infatti, si fa notare come “oltre a essere un politico all’interno della coalizione di governo in Italia”, Angelucci sia “anche un imprenditore nel settore della sanità privata e magnate dei media che già possiede diversi giornali (Libero, Il Tempo e Il Giornale)”.
L’attacco dei giornali di Angelucci – Sarà un caso ma sono proprio alcuni quotidiani di Angelucci quelli che oggi attaccano frontamente il rapporto del Media Freedom Rapid Response, mettendo all’indice alcuni cronisti italiani auditi dal consorzio. È quello che fa per esempio Il Giornale: pubblica un pezzo in cui sostiene che “dietro al report Ue” ci sono alcuni “giornalisti anti Meloni“, indicandoli con nome, cognome e testata (oltre alla cronista del Fatto, cita anche quelli di Repubblica, del Domani e de La Stampa). Nel pezzo del quotidiano di Angelucci si sostiene che i giornalisti abbiano addirittura “collaborato alla stesura dell’atto d’accusa“. Anche questa è un’affermazione falsa: sarebbe come dire che tutti i testimoni auditi durante un processo abbiano collaborato alla stesura delle motivazioni della sentenza.
La scomparsa dei fatti (quelli veri) – Insomma, pur di liquidare contestazioni avanzate in sede comunitaria sulla libertà di stampa in Italia, Meloni le fa passare come semplici attacchi provenienti da giornalisti nemici. E lo fa, come abbiamo detto, facendo confusione tra il report del Media Freedom Rapid Response e la relazione sullo Stato di diritto. In questo modo scompaiono completamente dal dibattito i richiami provenienti dalla Commissione Ue in tema di giustizia penale. Per elaborare il Rule of law, infatti, Bruxelles ha ascoltato tutte le parti coinvolte, a cominciare dai governi: a ogni contestazione avanzata dagli stakeholders corrisponde sempre la versione dell’esecutivo. Solo in alcuni rari casi, nelle 48 pagine dell’ultima relazione dedicata all’Italia, gli analisti di Bruxelles prendono posizione. Lo fanno, per esempio, quando si parla della riforma Nordio che abolisce l’abuso d’ufficio e modifica il reato di traffico d’influenze. Dopo le argomentazioni illustrate dal governo per giustificare il provvedimento e le contestazioni di alcuni portatori d’interessi (l’Autorità Anticorruzione, la procura Europea, Transparency international e la ong The Good Lobby), nella relazione si legge: “Tuttavia la criminalizzazione dell’abuso d’ufficio e del traffico di influenze fanno parte delle convenzioni internazionali sulla corruzione e sono quindi strumenti essenziali per l’applicazione della legge e l’azione penale per combattere la corruzione”. Anche le modifiche proposte alla prescrizione non piacciono a Bruxelles, perché “potrebbero ridurre il tempo a disposizione per condurre procedimenti giudiziari anche nei casi di corruzione“.
I precedenti e i giochi politici di Ursula – Ovviamente non è la prima volta che la Relazione sullo Stato di diritto Ue boccia il nostro Paese. Anzi. Già in passato la Commissione Ue aveva lanciato l’allerta in relazione alle riforme varate dall’Italia. Nel 2022, per esempio, le critiche al governo di Mario Draghi riguardavano le norme della guardasigilli Marta Cartabia. A proposito della cosiddetta improcedibilità, per esempio, Bruxelles spiegava che era necessario “uno stretto monitoraggio per assicurare che i processi per corruzione non si interrompano automaticamente in grado d’appello”. Mentre la riforma dell’ordinamento giudiziario rischiava “di comportare indebite influenze sull’indipendenza dei giudici“. Nel 2021, quando Giuseppe Conte aveva appena lasciato Palazzo Chigi, la Commissione era preoccupata per “l’indipendenza politica dei media”, anche a causa dell’assenza di “una legge efficace che regoli il conflitto di interessi“. Insomma: rilievi di questo tipo non sono sono indirizzati al nostro Paese solo perché a guidarlo c’è Giorgia Meloni. La premier, però, probabilmente non ha digerito i retroscena pubblicati nelle scorse settimane: von der Leyen, infatti, avrebbe deciso di ritardare la pubblicazione della Relazione, originariamente prevista per il 3 luglio. La presidente della Commissione Ue stava ancora cercando di ottenere la rielezione al vertice di palazzo Berlaymont e non voleva alienarsi l’appoggio della leader di Fratelli d’Italia con la pubblicazione di un dossier che critica aspramente le leggi del governo Meloni. Dopo che von der Leyen è stata riconfermata, senza l’appoggio della presidente del consiglio, ecco dunque che il dossier è stato pubblicato. Va detto che, al netto dei giochi politici, il Rule of Law era già pronto da settimane. E conteneva già tutte le critiche all’operato del governo Meloni. Contestazioni che, come abbiamo visto, sono frutto di interlocuzioni e di un attento monitoraggio. I giornalisti, in ogni caso, non c’entrano nulla.