C’è anche l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone tra gli indagati dalla Procura di Caltanissetta per il presunto insabbiamento dell’indagine sugli imprenditori mafiosi Nino e Salvatore Buscemi e i loro rapporti col gruppo Ferruzzi guidato da Raul Gardini. A raccontarlo è il quotidiano Repubblica che spiega come all’ex procuratore capitolino sia stato inviato un invito a comparire. Pignatone si è presentato a Caltanissetta mercoledì mattina per essere interrogato dal capo dell’ufficio inquirente Salvatore De Luca, che coordina l’inchiesta insieme all’aggiunto Pasquale Pacifico e ai sostituti Davide Spina, Claudia Pasciuti e Nadia Caruso.

Le accuse a Pignatone – Già sostituto e procuratore aggiunto a Palermo, poi al vertice delle procure di Reggio Calabria e di Roma, oggi Pignatone presiede il tribunale di Città del Vaticano. A Caltanissetta è indagato per favoreggiamento alla mafia, reato commesso – secondo le accuse – in concorso con l’ex procuratore Pietro Giammanco (morto nel 2018 e considerato dai pm nisseni “l’istigatore” dell’insabbiamento dell’indagine), con l’allora collega Gioacchino Natoli e con il capitano della Guardia di Finanza Stefano Screpanti, oggi generale al vertice del Nucleo frodi contro l’Ue. “Ho dichiarato la mia innocenza in ordine al reato di favoreggiamento aggravato ipotizzato. Mi riprometto di contribuire, nei limiti delle mie possibilità, allo sforzo investigativo della Procura di Caltanissetta”, ha detto Pignatone all’agenzia Ansa. Sia Natoli che Screpanti hanno ricevuto l’invito a comparire nelle scorse settimane e sono già stati interrogati: l’ex pm si è avvalso della facoltà di non rispondere e ha annunciato di voler chiarire la sua posizione in un secondo momento, mentre il militare ha respinto le accuse.

Le accuse a Natoli – L’attività della Procura nissena ruota attorno a un’indagine collegata aperta a Palermo nel 1991, su input della procura di Massa-Carrara, relativa alle infiltrazioni di Cosa nostra nelle cave di marmo in Toscana. Di quel fascicolo Natoli chiese e ottenne l’archiviazione alla fine del giugno del 1992. Tra i principali indagati c’erano Nino e Salvatore Buscemi, imprenditori mafiosi vicini al capo dei capi Totò Riina, poi divenuti soci del gruppo Ferruzzi, ma pure il boss Francesco Bonura. Tutti personaggi che verranno successivamente condannati in altre inchieste. Secondo l’accusa, Natoli, Giammanco e Screpanti (ciascuno nel proprio ruolo) avrebbero aiutato i sospettati a “eludere le investigazioni”, svolgendo “un’indagine apparente” e in particolare chiedendo “l’autorizzazione a disporre attività di intercettazione telefonica per un brevissimo lasso temporale”, “inferiore ai quaranta giorni per la quasi totalità dei target”, e “solo per una parte delle utenze da sottoporre necessariamente a captazione”. Inoltre, non sarebbero state “trascritte conversazioni particolarmente rilevanti, da considerarsi vere e proprie autonome notizie di reato”. Dopo aver ritrovato i nastri negli archivi del palazzo di giustizia di Palermo, infatti, la procura di Caltanissetta ha ordinato il riascolto di tutte le intercettazioni, anche di quelle che all’epoca non furono trascritte.

La questione dei nastri e l’aggiunta a penna – Nei mesi scorsi questa vicenda è stata ricostruita davanti alla commissione Antimafia ed è stata fonte di roventi polemiche. Il primo a parlarne, nel settembre del 2023, è stato l’avvocato Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino. Dopo aver legato quell’indagine al dossier Mafia e appalti, considerata dal legale e dagli ex vertici del Ros dei Carabinieri come il movente segreto della strage di via d’Amelio, Trizzino aveva accusato Natoli di aver “inspiegabilmente” chiesto di smagnetizzare le intercettazioni dei fratelli Buscemi. Accuse alle quali Natoli aveva replicato con un’intervista al Fatto Quotidiano e poi durante un’audizione sempre davanti alla commissione Antimafia. La smagnetizzazione delle bobine era una “prassi adottata dal Procuratore di Palermo dettata sia dalla necessità di riutilizzare le bobine smagnetizzate per la nota carenza di fondi ministeriali fortemente presente in quel periodo, sia per la mancanza di spazi fisici per la conservazione dei nastri”, aveva spiegato l’ex componente del pool Antimafia di Palermo. Segnalando, inoltre, come in effetti quelle bobine non furono mai smagnetizzate ma erano rimaste conservate in archivio. A essere scomparsi, però, sono tre dei quattro brogliacci riepilogativi degli ascolti. Che questa vicenda sia piena di misteri lo testimonia anche il documento con cui Natoli chiedeva di smagnetizzare quelle intercettazioni: una mano che al momento viene considerata ignota, infatti, aveva aggiunto a penna anche l’ordine di distruzione dei brogliacci. Quella calligrafia non appartiene nè a Natoli (che di quel documento rivendica come sua soltanto la firma) e neanche a Damiano Galati, storico funzionario del Centro Intercettazioni telefoniche. “Quanto, infine, all’ordine di distruzione dei brogliacci, lo stesso non è riferibile alla mia persona, essendo stato aggiunto a mano da qualcuno con una calligrafia che, all’evidenza, non è la mia, dopo la consegna all’Ufficio Intercettazioni in data 25 giugno 1992”, ha spiegato l’ex pm davanti all’Antimafia.

“Anche Pignatone archiviò quell’inchiesta” – Le argomentazioni esposte Natoli a Palazzo San Macuto sono contenute in un documento di 28 pagine, intitolato “brevi note di chiarimento“, che l’ex pm ha depositato agli atti della commissione, inviandolo via pec pure alla procura di Caltanissetta. In quel documento il nome di Pignatone compare due volte. La prima si riferisce alla nota arrivata da Massa Carrara nell’aprile del 1992: l’allora procuratore Duino Ceschi comunicava alle procure di Firenze e Palermo che il fascicolo dell’indagine sui Buscemi era stato trasferito per competenza a Lucca. “Di tale doverosa trasmissione dell’intero fascicolo ‘in originale’ (si presume corredato dai nastri delle intercettazioni effettuate sia dall’Alto Commissario per la lotta alla mafia sia dal pm Lama) il Procuratore Ceschi dava comunicazione – per conoscenza e per eventuale competenza – anche alle Procure di Firenze (in quanto sede della DDA toscana) e di Palermo (per il precedente “collegamento di indagini”)”, ricostruisce Natoli. “A Palermo – proseguiva l’ex pm – tale comunicazione pervenne – in sede di turno tra gli Aggiunti per la distribuzione della posta in arrivo – al dott. Paolo Borsellino, che la assegnò ai dott.ri Pignatone e Lo Forte, i quali formarono inizialmente il fascicolo n° 2289/92, ma poi, accorgendosi che la nota si riferiva al già esistente procedimento n. 3589/91 di “indagini collegate” a Massa Carrara, la inviarono al dott. Natoli per ‘unione agli atti’, in data 25 aprile 1992″. In pratica, per errore, si era aperta una nuova indagine mentre sulla vicenda esisteva già l’inchiesta che sarà poi archiviata da Natoli. Ma l’ex pm ricorda anche come non fu l’unico magistrato a chiedere di chiudere quel fascicolo senza andare a processo. “Il procedimento n. 3589/91 da me archiviato il 1° giugno 1992, venne riaperto (con il n° 1500/93) in data 4 marzo 1993 dal dott. Giuseppe Pignatone, per poi essere riunito al procedimento n. 6613/94, assegnato inizialmente ai pm Pignatone e Ilda Boccassini e, successivamente, ad altri colleghi”, ricostruiva sempre l’ex componente del Pool Antimafia. “Anche questi procedimenti si conclusero tutti nel 1995 con l’archiviazione nei confronti degli indagati (tra i quali i Buscemi) , a dimostrazione del fatto che non solo il dott. Natoli aveva ritenuto l’insussistenza di elementi utili a proseguire le indagini nei confronti dei fratelli Buscemi per quelle ipotesi di reato, ma ben cinque pm condivisero quella valutazione iniziale, pur con il sostegno delle nuove dichiarazioni di importanti collaboratori sopraggiunti dal 1993 in poi, che ovviamente non vi erano al 1° giugno 1992 nel fascicolo del pm Natoli”.

Le vecchie accuse dei pentiti e la casa comprata dai Buscemi – Il nome di Pignatone era stato associato a quello dei Buscemi e dei Bonura anche negli anni ’90. Nel 1997 il collaboratore Giovanni Brusca aveva accusato l’allora pm di Palermo di essere “vicino” ai fratelli Buscemi: accuse che non erano mai state riscontrate e che erano state quindi archiviate. Tre anni prima, nel 1994, era stato un altro pentito, Salvatore Cancemi, ad accusare l’allora pm di Palermo di essere “nelle mani” dell’imprenditore Vincenzo Piazza, socio dei Buscemi e di Bonura, considerato affiliato al mandamento mafioso di Boccadifalco, guidato proprio da Cancemi. Piazza è stato uno dei costruttori del “sacco di Palermo“, cioè la mega speculazione edilizia ordita da Vito Ciancimino, che aveva fatto scomparire la storica parte della città costituita da costruzioni in stile Liberty. Secondo Cancemi, il costruttore mafioso aveva persino fornito un appartamento a Pignatone. Anche queste accuse sono state archiviate: l’indagine accertò che quell’immobile era stato regolarmente acquistato, nel 1980, dalla moglie di Pignatone. Agli atti vennero prodotte anche le matrici degli assegni usati per pagare la casa, che era stata venduta dalla società Immobiliare Raffaello, della quale erano soci Piazza, Bonura e Salvatore Buscemi.

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