Ali Hassan Salameh era uscito da poco dalla sua abitazione di Beirut. Era il 22 gennaio del 1979, aveva salutato sua moglie, la Miss Universo 1971 Georgina Rizk, ed era salito sulla sua Chevrolet con altri quattro palestinesi. Sapeva che la sua vita era in pericolo, sapeva che per Israele rappresentava il numero uno nella lista dei nemici da eliminare. Il Principe Rosso era uno degli uomini più vicini al capo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), Yasser Arafat. Ma era soprattutto uno degli architetti delle operazioni di Settembre Nero, l’organizzazione palestinese responsabile della strage degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco 1972. Quel 22 gennaio 1979 un’autobomba con un quintale di esplosivo fece saltare in aria lui e la sua auto, uccidendo tutti quelli che si trovavano a bordo. Quel giorno Israele compì la sua vendetta definitiva contro chi osò affrontarlo. Oggi, il governo di Tel Aviv gioisce di nuovo. A morire, questa volta, è Ismail Haniyeh, capo politico di Hamas, l’organizzazione che dieci mesi fa ha osato di nuovo attaccare al cuore lo ‘Stato ebraico‘. Il messaggio recapitato è lo stesso di 45 anni fa: non esiste luogo sicuro per i nemici di Israele.

L’uccisione di Ali Hassan Salameh è considerata l’ultimo grande omicidio mirato di Israele dell’operazione Ira di Dio contro i vertici di Settembre Nero. Quello di Haniyeh rischia invece di essere solo un colpo eccellente in una contesa che sarà ancora lunga e sanguinosa. Oggi come allora, Tel Aviv ha onorato la propria promessa: catturare, o meglio ancora uccidere, tutti i nemici ovunque essi siano. Salameh è riuscito a sfuggire per ben sette anni al mirino del Mossad, spostandosi tra Europa e Medio Oriente, ma senza rinunciare mai all’amata vita mondana, alle donne, alle feste, alla sua fama da dandy, come se vivesse nella convinzione dell’immortalità. Israele dimostrò che non era così.

Per Haniyeh, invece, la storia è diversa: il leader di Hamas si trovava all’estero da quando nel 2019 fuggì dalla Striscia di Gaza chiedendo asilo politico in Qatar. Dall’emirato del Golfo ha continuato a prendere parte alle decisioni del partito senza che Israele sia mai riuscito a colpirlo. Ma quando a dicembre la monarchia ha chiesto agli alti ranghi del partito armato palestinese come Haniyeh, Khaled Meshaal e altri di lasciare il Paese perché non era più in grado di proteggerli, ecco che il livello di sicurezza dei vertici di Hamas è diventato un’incognita. Ma l’Iran è la potenza regionale che ha promesso sostegno e protezione ai leader del Movimento Islamico di Resistenza. Ma non è stata in grado di salvaguardare la vita del suo numero uno.

Ronen Bar, il direttore dello Shin Bet, nei giorni che seguirono l’attacco di Hamas del 7 ottobre fece la stessa promessa di Golda Meir 45 anni prima: “Elimineremo i capi di Hamas anche in Qatar e in Turchia. Ci vorrà qualche anno, ma lo faremo. Questa è la Monaco della nostra generazione“. E come negli anni che seguirono le Olimpiadi tedesche, con una mano Israele radeva al suolo Gaza e rispondeva ai razzi di Hezbollah sul confine libanese, con l’altra prendeva la mira e colpiva i leader dell’organizzazione in giro per il Medio Oriente. Manca ancora il pesce grosso, quel Yahya Sinwar considerato la mente del massacro del 7 ottobre, ma di croci su nomi di primo livello ne sono state messe già tante: Saleh al-Arouri, il vice dell’ufficio politico ucciso nel quartiere roccaforte di Hezbollah in Libano a gennaio; Jamila al-Shanti, vedova del co-fondatore di Hamas Abdel Aziz al-Rantisi, ammazzata con un raid nella Striscia di Gaza; Hussein Fiad, Comandante del Battaglione Beit Hanun; Faiq Mabhuoch, capo delle operazioni di sicurezza interna di Hamas.

Li hanno definiti “omicidi mirati“, ma nella maggior parte dei casi il loro prezzo è stato pagato col sangue di civili innocenti. Fu lo stesso anche con l’attentato ad Ali Hassan Salameh. Insieme a lui e ai suoi quattro compagni persero la vita quattro persone che si trovavano sul posto, tra cui una suora e uno studente. L’allora premier Golda Meir rispose alle critiche esprimendo un concetto che è ancora inciso sui comandamenti di guerra d’Israele: siamo in guerra e in guerra muoiono anche civili innocenti. Così, che l’uccisione di Haniyeh non abbia provocato altre vittime può essere considerato un successo, ma anche un’eccezione. Lo hanno dimostrato gli altri omicidi e lo dimostra soprattutto la quotidianità di Gaza, dove le bombe dello ‘Stato ebraico’ continuano a massacrare i civili intrappolati nell’enclave palestinese.

L’uccisione di Ali Hassan Salameh placò in parte la sete di vendetta di Israele, quella di Haniyeh non sembra destinata ad avere lo stesso successo. Hamas continuerà a vivere e combattere, probabilmente si assisterà presto a una reazione che verserà altro sangue, i colloqui per un cessate il fuoco appaiono ancora più in alto mare, mentre il fantasma di Yahya Sinwar occupa sempre gli incubi del governo e dell’esercito d’Israele. La caccia, non solo quella di Tel Aviv, non è ancora finita.

X: @GianniRosini

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