Il concorso per presidi, o più correttamente per dirigenti scolastici, si è trasformato nel consueto caos normativo innescando tensioni sui vari fronti. Al di là di questo pasticcio all’italiana, c’è da chiedersi perché mai molti docenti vogliano abbandonare la sudata cattedra e unirsi al drappello dei circa 8.000 presidi italiani. La risposta a questa domanda ci aiuta a capire una delle radici dei mali della nostra scuola, purtroppo ingigantiti o non curati da un ventennio di riforme scolastiche, di destra e di sinistra, da quella di Berlinguer del 2000 in poi.
Una possibile risposta la troviamo nei dati contenuti in Education at Glance del 2023. Una delle tante tabelle confronta il reddito annuale di un docente e di un dirigente scolastico con la media dei redditi dei laureati del suo Paese. Un confronto pienamente legittimo e quasi doveroso. Un laureato, per esempio in biologia può scegliere se insegnare oppure fare il biologo nel pubblico o nel privato. Che cosa conviene economicamente? Vediamo i dati Ocse partendo dalla condizione economica del docente.
Nell’Europa a 22 paesi, quelli dei dati considerati, il rapporto tra il reddito di un docente di scuola superiore e il reddito di un laureato vale 0,96, cioè docente guadagna il 4% in meno di un altro laureato. Questo in media e le differenze possono essere anche molto marcate. Di sicuro la professione docente non è molto attraente economicamente. La situazione poi è diversa da Paese a Paese. Considerando due economie come la nostra, in Francia il rapporto vale 0,92 e in Germania 1,12. Siamo dunque intorno alla media. Come si colloca l’Italia? Il nostro Paese ha valore più basso tra le nazioni europee, 0,74. Quindi chi sceglie di insegnare rinunciare a più del 25% del guadagno alternativo non utilizzando bene la sua laurea. Ancora peggiore è la situazione negli Usa, dove l’indice vale 0,68.
La conclusione è semplice. Da un punto di vista economico il lavoro di insegnante non è molto attrattivo. Chi lo sceglie lo fa per altri motivi, più o meno nobili. In Italia la situazione è scandalosamente critica e molto penalizzante per chi voglia entrare nella professione. Non sorprende, allora, che ad esempio negli Usa ci sia una fuga dalla professione docente. I docenti sono i proletari tra coloro che hanno una laurea.
Se poi guardiamo l’andamento nel tempo degli stipendi dei docenti, la situazione si fa ancora più grama. L’Ocse, sempre edizione 2023, ha stimato la variazione di redditi dei docenti dal 2015 al 2022. La situazione è diversificata. In molti Paesi i salari sono cresciuti. In Israele del 48%, al top, oppure in Germania del 10%. In altri sono miseramente diminuiti. Le peggiori performance sono quelle degli stipendi dei docenti italiani (-11%) e di quelli greci (-44%). Se teniamo contro poi che dal 2011 e per alcuni anni gli stipendi dei pubblici dipendenti sono stati bloccati dal governo Berlusconi, la caduta dei redditi dei docenti è stata ancora più forte. Né sembra che il ministro Valditara cambi registro, visto che ha promesso un aumento di 160 euro che coprono nemmeno metà dell’inflazione bellica attuale.
E per i presidi? Qui la musica cambia decisamente e spunta un bel sole. Da quando abbiamo l’autonomia scolastica e il preside è stato trasformato in dirigente, fondamentalmente un cambio di nome ma non di funzioni, gli stipendi di questi pubblici dipendenti hanno cominciato a volare. Oggi i presidi italiani sono i più pagati, o quasi, d’Europa. Il loro valore indice è di 1,71. Cioè oggi il dirigente scolastico guadagna il 72% in più di un qualsiasi altro laureato, e il 100% in più di un suo docente. Quindi in Europa abbiamo due primati opposti: i docenti peggio pagati e i capi d’istituto più pagati. D’altronde, è più facile demagogicamente aprire il portafoglio per ottomila capi di istituto che per 680.000 mila docenti. Ma questo ha cambiato la scuola? Non pare e il preside oggi è un privilegiato economicamente, ma frustrato e insicuro professionalmente perché sostanzialmente non ha grandi poteri, se non di comunicazione e di fantasioso marketing.
Ecco allora spiegata la corsa alla dirigenza scolastica con annesse gomitate e sgambetti vari. È una specie di lotteria alla quale docenti senza reali prospettive professionali affidano la loro riscossa economica. Una piccola corsa all’oro per qualche centinaio di posizioni. Fare un salto economico del 100%, con annessi altri privilegi, non è male. Quando ho cominciato a fare l’insegnate alle superiori, qualche decennio fa, la professione del preside non era molto ambita per la sua pesantezza amministrativa e gestionale. Sostanzialmente partecipavano ai concorsi a preside i docenti passatelli, stanchi di entrare in classe. Ora la situazione è cambiata e la scuola dell’autonomia si è illusa di cambiare il destino della scuola strapagando i cosiddetti dirigenti, dimenticando che ancora oggi sono docenti che vanno in classe e determinano, fino a prova contraria, la qualità dell’istruzione che dipende dalle risorse.
Il tasto dolente allora è sempre quello delle risorse. Anche il 2022, ultimo anno disponibile, è stato un anno di normale sottofinanziamento per la scuola secondo l’Istat. La media Ue della spesa per l’istruzione sul Pil è stata del 4,7%, quella italiana del 4,2%. La differenza sembra piccola ma si tratta di più di 10 miliardi che ogni anno mancano all’appello. Dalla scuola si può e si deve pretendere di più, ma prima bisogna dare – come per ogni altra attività, del resto. Beatificare economicamente i capi d’istituto non ha fatto fare nessun passo in avanti, anche perché l’appetito viene mangiando e i signori della scuola chiedono sempre di più per ragioni che sembrano puramente corporative.