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L’omicidio di Haniyeh è solo l’ultimo colpo di Israele in Iran. E dimostra che la Repubblica Islamica non può proteggere i suoi alleati

A differenza dello strike contro Kataib Hezbollah in Iraq e soprattutto della presunta uccisione di Fouad Shoukr, membro del Consiglio della Shura di Hezbollah in Libano, quella del capo del Politburo di Hamas, Ismail Haniyeh, assassinato nella notte di martedì da Israele mentre si trovava in un alloggio per veterani e dignitari stranieri nel nord […]

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A differenza dello strike contro Kataib Hezbollah in Iraq e soprattutto della presunta uccisione di Fouad Shoukr, membro del Consiglio della Shura di Hezbollah in Libano, quella del capo del Politburo di Hamas, Ismail Haniyeh, assassinato nella notte di martedì da Israele mentre si trovava in un alloggio per veterani e dignitari stranieri nel nord di Teheran, in Iran, contiene delle implicazioni di enorme portata.

La prima è che se quello di Shoukr può essere definito un omicidio mirato di un operativo del partito-milizia libanese, in grado di generare un vantaggio tattico nella dimensione bellica e di rispondere a un imperativo di tutela della sicurezza israeliana, quello di Haniyeh (il ritratto) non ha nessuna di queste caratteristiche. È, invece, una esecuzione extragiudiziale di un politico senza nessuna influenza nelle strategie militari di Hamas e sarà percepito da Teheran come un palese atto di guerra. Non è ancora chiaro se l’attacco israeliano sia stato condotto da un “Paese terzo, vicino all’Iran”, come riferito dall’emittente Al Mayadeen (che cita fonti della sicurezza iraniana), e non dall’interno del territorio iraniano, come accaduto in altre occasioni.

La seconda è che questo assassinio, all’indomani della visita di Netanyahu negli Stati Uniti, interrotta dopo la notizia dell’uccisione di 12 bambini nel Golan occupato, attribuita da Israele a Hezbollah, potrebbe segnalare una inquietante inversione di postura da parte degli Stati Uniti. Gli osservatori hanno a lungo sostenuto, non senza ragioni, che Washington non desidera un allargamento del conflitto sul piano regionale e mondiale, tentando in questi mesi di esercitare timidamente un comportamento più moderato nei confronti dell’alleato israeliano.

I fatti di Teheran indicano la possibilità che invece gli Stati Uniti abbiano accettato la possibilità di una escalation, fornendo una “luce verde” per l’operazione al governo Netanyahu. E che forse abbiano assunto questa posizione anche per rafforzare la percezione di affidabilità dell’attuale presidenza (nonché della candidata democratica alle presidenziali, Kamala Harris) a Tel Aviv, la cui insofferenza verso l’amministrazione democratica era palpabile, specie se messa in relazione alla posizione totalmente allineata a Netanyahu di Donald Trump.

Gli Stati Uniti sono ora costretti ad assecondare il governo israeliano forse come mai prima d’ora, e non solo nella prospettiva di una futura presidenza Trump. Un cessate il fuoco a Gaza sembra inoltre quasi impossibile, anche perché a Netanyahu non rimane alcuna opzione se non quella di mantenere lo stato di guerra e, semmai, provocare una ulteriore escalation che cristallizzi lo “stato di emergenza”. Israele avrebbe potuto uccidere Haniyeh in decine di altre occasioni, specie quando si trovava in Qatar, anche perché visto il suo ruolo politico, a differenza di Yayha Sinwar non viveva in clandestinità ma come un qualunque politico. Ha scelto di farlo in territorio iraniano per ragioni precise, che rispondono a un paradossale e preoccupante imperativo di escalation.

La terza implicazione getta una luce sulle palesi falle nei sistemi di sicurezza interna in Iran, rese ancor più grottesche dalle dichiarazioni di alcuni giorni fa di Ismail Khatib, ministro dell’Intelligence uscente della Repubblica islamica, che in una intervista a una tv locale aveva riferito come Teheran fosse riuscita a “smantellare una rete di infiltrazione del Mossad in Iran”. Non è la prima volta che Israele colpisce in territorio iraniano delle personalità politiche o civili e non militari: negli ultimi 15 anni erano stati uccisi non meno di 7 scienziati nucleari iraniani, in operazioni mai smentite né confermate, fatta eccezione per quella di Mohsen Fakhrizadeh.

L’ultima operazione israeliana, tuttavia, era avvenuta a Damasco, pur in territorio legalmente iraniano, visto il bombardamento del suo consolato nella capitale siriana. In quel caso Teheran aveva, tra il 13 e il 14 aprile, reagito con il primo bombardamento diretto su Israele, pur largamente annunciato (permettendo quindi a Israele di difendersi adeguatamente), al fine di non provocare una escalation ma nella convinzione – a questo punto erronea – di aver ristabilito una deterrenza. L’uccisione di Haniyeh, secondo diverse fonti, ha scioccato l’establishment iraniano, che credeva che la partita con Israele potesse continuare a giocarsi tra Gaza e il sud del Libano e che Israele, dopo lo scambio a fuoco di aprile, non fosse più intenzionata a colpire direttamente in territorio della Repubblica islamica.

Una prima conseguenza di questo stato di deducibile “incredulità” potrebbe riversarsi sul piano interno: l’elezione del presidente iraniano di orientamento riformista, Masoud Pezeshkian, sembrava poter riaprire degli spiragli per un rinnovato dialogo in vista di un nuovo accordo sul nucleare iraniano, o perlomeno in funzione di un raffreddamento di alcune delle tensioni in atto. L’operazione di stanotte rischia invece di privare Pezeshkian – proprio oggi al primo giorno ufficiale del suo mandato – di qualunque potere negoziale, che sulla politica estera è già di per sé contenuto. Se l’Iran si prepara alla guerra per lavare l’onta della sua vulnerabilità, il ruolo del presidente diventa quasi del tutto irrilevante.