Sono passati quasi 48 anni da quando, il 26 settembre del 1976, uno scoppio all’interno dell’ex petrolchimico di Manfredonia (Foggia) provocò la fuoriuscita di arsenico. Una nube si diresse verso la città, provocando un impatto devastante dal quale scaturì un processo nel quale gli imputati furono tutti assolti. Uno studio condotto da un team internazionale di ricercatori su 1.772 lavoratori aggiorna i dati emersi da una ricerca condotta a cavallo degli Anni duemila da epidemiologi dell’Istituto Superiore di Sanità sulla salute degli operai che furono esposti alla sostanza cancerogena dopo l’esplosione.
Le conclusioni dello studio – E giunge a due principali conclusioni: che gli operai maggiormente esposti ad arsenico durante le attività di bonifica hanno perso in media cinque anni di vita rispetto ai colleghi operai meno esposti e che gli operai residenti a Manfredonia presentano un rischio di morte per tumore polmonare che è il triplo del rischio a cui sono soggetti i colleghi residenti in altri comuni. Il nuovo lavoro, infatti, presenta i risultati di un periodo di osservazione lungo 45 anni sui lavoratori esposti, con particolare attenzione alla situazione di chi era residente a Manfredonia e include oltre 300 lavoratori, che parteciparono alle operazioni di bonifica, esclusi da ricerche precedenti. Lo studio, pubblicato su Science Direct, è stato coordinato dall’epidemiologo Emilio Gianicolo dell’Istituto di Biometria, Epidemiologia e Informatica dell’Università di Mainz e del Cnr di Lecce ed è stato condotto dalla ricercatrice Rossana Di Staso, statistica dell’Università di Bologna, nell’ambito di un progetto Erasmus+, dalla professoressa emerita di Statistica ed Epidemiologia Maria Blettner e dal professore Daniel Wollschläger dell’Istituto di Mainz.
Il disastro di Manfredonia – Dopo l’esplosione, i materiali contaminati più pesanti ricaddero nei pressi dell’area dove avvenne lo scoppio. Una nube di polvere e arsenico si alzò in cielo e si diresse verso la città, che distava appena due chilometri dal petrolchimico, contaminando i quartieri più vicini. Le autorità vietarono la raccolta di ortaggi e olive nelle zone contaminate e, successivamente, anche le attività di pesca. Furono abbattuti animali da cortile, mentre 116 lavoratori furono costretti al ricovero presso l’ospedale civile di Manfredonia a causa di sintomi di avvelenamento da arsenico. Novantotto di loro presentavano livelli di arsenico maggiori di 3000 microgrammi per litro nelle urine. Tra questi, sia gli operai (del petrolchimico e delle ditte appaltatrici) che avevano respirato la sostanza, sia i residenti che avevano ingerito ortaggi contaminati.
Le attività di bonifica – “Nei primi giorni successivi all’incidente, circa 1.800 lavoratori dello stabilimento, oltre a lavoratori di ditte appaltatrici e tecnici giunti da altri siti italiani della stessa azienda – ricostruiscono gli autori dello studio – iniziarono le attività di bonifica e prelevarono campioni di terreno per valutare il grado di contaminazione. Lavorarono senza ricevere alcun equipaggiamento protettivo dall’azienda durante i primi giorni”. La bonifica terminò ufficialmente il 13 gennaio 1977 anche se, sulla base di campioni di terreno, la contaminazione da arsenico nell’impianto è stata registrata fino al 1980. Le attività di decontaminazione riguardarono circa 39 tonnellate di arsenico. Nei giorni successivi all’incidente fu istituito un comitato tecnico-sanitario che stabilì in 100 microgrammi per litro la soglia di arsenico nelle urine oltre la quale i lavoratori non potevano entrare nello stabilimento e dovevano ripetere l’analisi entro una settimana. “Tale soglia era stata raramente superata durante i normali controlli effettuati prima dell’incidente, ma le stesse denunce di malattie presso l’Ispettorato del lavoro erano legate agli sforamenti delle concentrazioni di arsenico nelle urine”, spiega a ilfattoquotidiano.it l’epidemiologo Emilio Gianicolo. Il 12 ottobre 1976, invece, il comitato tecnico pubblicò un rapporto basato sugli esami clinici condotti su 700 lavoratori, circa la metà dei quali (45%) superava la soglia dei 100 μg/l. “Alcuni superavano anche i mille microgrammi per litro. Pertanto, per garantire la prosecuzione delle attività di bonifica ancora in corso, la soglia è stata innalzata a 300 microgrammi per litro”, sottolinea. “Tra i lavoratori che parteciparono alle operazioni di bonifica – aggiunge l’epidemiologo – anche quelli delle ditte appaltanti che, come si legge nei documenti processuali, erano lì a spazzare l’arsenico con le scope”. Secondo gli autori, con “l’innalzamento delle soglie si è data priorità alle attività di bonifica rispetto alla salute dei lavoratori”.
In 300 esclusi dagli studi precedenti – In seguito a un esposto del capoturno Nicola Lovecchio, ammalatosi all’inizio degli anni ’90 di tumore correlato ad arsenico, la Procura di Foggia avviò nel 1996 un procedimento penale a carico di dieci dirigenti del petrolchimico e di due medici dell’azienda e chiese uno studio di coorte occupazionale. Sotto osservazione finirono i lavoratori del personale a tempo indeterminato e i lavoratori a contratto che avevano segnalato un infortunio legato all’incidente o avevano livelli di arsenico superiori alle soglie stabilite dalle autorità. Utilizzando questo criterio, furono esclusi più di 300 lavoratori che pure avevano preso parte alle attività di bonifica a seguito dell’incidente ed erano stati inclusi in un programma di sorveglianza epidemiologica. E furono esclusi anche da uno studio di aggiornamento condotto nel 2016. “Anche i consulenti del pm richiesero per loro l’aggiornamento dello stato in vita e oggi li abbiamo inclusi e siamo potuti giungere a conclusioni significative anche grazie alla straordinaria partecipazione dei Comuni, che hanno fornito i dati sullo stato in vita dei lavoratori e all’apporto dell’Asl di Foggia per i dati ufficiali sulle cause di decesso”, commenta Gianicolo.
Il processo – Gli indagati furono successivamente prosciolti perché il fatto non sussiste. L’azienda, all’epoca Anic poi Enichem, offrì una somma di denaro ad alcuni operai, a familiari di lavoratori ed altri soggetti costituitisi nel processo come parte civile, in cambio del ritiro della loro costituzione. Solo la famiglia di Lovecchio ed alcune associazioni, tra cui Medicina Democratica, rifiutarono l’indennizzo. Secondo gli autori, i risultati di questa ricerca “hanno una rilevanza scientifica e storico–processuale, in quanto aggiungono ulteriori elementi rispetto a quanto emerso nel corso del processo, durante il quale epidemiologi e medici del lavoro intervenuti nel dibattimento a sostegno delle difese dell’azienda hanno sostenuto che gli incrementi dei valori di arsenico nelle urine degli operai erano stati causati dell’abituale dieta a base di crostacei dei manfredoniani e non dall’esposizione ad arsenico di origine industriale”.