Ieri è stato ammazzato a Teheran il capo del Politburo di Hamas. Una notizia gravissima, che getta ulteriore benzina sul fuoco dell’incendio mediorientale. Eppure l’opinione pubblica social si è scandalizzata per una pugile con i livelli di testosterone più alti del normale scambiandola per un uomo. Indignazione generale a buon mercato e attivismo dei pigri contro la famosa discriminazione al contrario, la cultura woke e dove andremo a finire, signora mia.

Due giorni fa, la nuotatrice Benedetta Pilato è arrivata quarta in una gara delle Olimpiadi e si è detta felice del risultato, ma è stata criticata da un’altra sportiva, oggi commentatrice. Sui social non si è parlato d’altro, con tanto di prosopopea sulla bellezza della partecipazione, tanto che Pilato è perfino diventata suo malgrado il modello della critica alla “società della prestazione”, che detto di atleti che sottopongono il corpo e la mente a sacrifici enormi e stress estremi, sacrificando molta parte della loro vita, al solo fine di primeggiare sugli altri, è una cosa che fa ridere. Crocifissione in sala mensa della commentatrice che aveva osato mettere in dubbio il decubertinismo di ritorno della nuotatrice.

Ancora si odono, intanto, gli alti lai di reazionari e rossobruni contro lo spettacolo inaugurale della competizione olimpica: “è una parodia dell’Ultima cena”, dicevano i più; “ma no, è il Festin des dieux”, rispondeva l’autorevole storico Patrick Boucheron, che l’aveva scritta.

Ogni giorno va in scena una micro-guerra culturale con conseguente polarizzazione del campo della lotta. Ci si divide: innocentisti-colpevolisti, buoni-cattivi, rossi-neri, e chiaramente a nessuno viene in mente che la polarizzazione è una brutale trivializzazione della realtà che serve solo a far sì che gli uni e gli altri, non capendo nulla, si schierino come in un gioco. Del resto mai come in questa fase storica, a partire dall’attacco di Putin all’Ucraina, la parola ‘complessità’ se l’è passata così male. Non è certo iniziata con l’invasione dell’Ucraina la guerra a una comprensione più articolata e dialettica della realtà.

Viviamo ormai da un bel pezzo nella società distopica in cui social e realtà si sono completamente sovrapposti. E non è il caso di fare alcun birignao sui tempi e i costumi dei padri stravolti da questo mondo superficiale. Che sia avvenuto tutto questo non è né un bene né un male, di per sé: è una scelta. E produce un indotto. Sui giornali online ormai è facile trovare, prima delle notizie di politica estera, i resoconti della polemica del giorno; in televisione idem; i protagonisti di queste polemiche diventano i protagonisti dei rotocalchi e delle trasmissioni di commento, che non costano nulla perché vengono costruite sul nulla (prendere un post o un’intervista e chiamare dei commentatori pagati in visibilità non costa niente). Ormai anche alcuni giornali esistono solo per finire sui social e da lì in televisione. Chi commenta sa che dovrà atteggiarsi a influencer per poter scalare la timeline dei propri contatti, e questa non si conquista coi ragionamenti.

Un nuovo palazzo dell’Eur dovrebbe oggi riportare la scritta “Popolo di influencer”. Spesso influencer dei poveri: gente che si esprime su qualsiasi cosa con decine di post acchiappa-like al giorno, persone schive trasformate in “content creators”, coatti del post per una manciata di “mi piace”. Ed è qui che, al di là di ogni altra considerazione, arriva la domanda: quanto dureremo? Ovvero: quanto durerà questa coazione al commento plebiscitario (sì-no)? Per quanto tempo potremo reggere la chiamata alla polarizzazione? Quando, un’estate del futuro, estenuati, sudati, stanchi, dopo il centesimo like o la centesima indignazione farlocca, ci asciugheremo il viso madido e diremo “ma chi se ne frega!”?

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