La “X” rossa sulle facce dei suoi leader sta diventando l’incubo di Hamas. Mercoledì un razzo israeliano ha ucciso in Iran il leader politico dell’organizzazione, Ismail Haniyeh. E mentre i funerali a Teheran sono ancora in corso, arriva la notizia di un’altra uccisione eccellente, quella di Mohammed Deif, il capo delle Brigate Ezzedin al-Qassam, il braccio armato di Hamas dal 2002. Il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, ha ufficializzato la sua morte, avvenuta il 13 luglio in un raid aereo a Khan Younis, con una foto su Twitter in cui mette una croce sulla sua foto, proprio come avvenuto 24 ore prima per Haniyeh. Una tendenza alla rivendicazione inusuale per Israele e che nasconde la necessità di utilizzare le morti dei leader di Hamas come degli importanti successi per lo ‘Stato ebraico‘.
La morte nel raid di metà luglio
Da quanto riferiscono le Forze di Difesa Israeliane (Idf), che hanno ottenuto nelle scorse ore informazioni di intelligence, il leader delle milizie del Movimento Islamico di Resistenza è stato ucciso in un attacco che ha preso di mira un compound appartenente a Rafa Salameh, comandante della Brigata Khan Yunis di Hamas. Il giorno successivo le Idf avevano confermato la morte di Salameh, ma non ufficialmente quella di Deif, sebbene l’intelligence ritenesse praticamente certo che i due si trovassero insieme nell’edificio bombardato dai caccia. I jet israeliani avevano pattugliato il complesso per mezza giornata prima dell’attacco e avevano verificato quindi l’arrivo di Deif al complesso.
La rivendicazione
Come successo per Haniyeh, anche per Deif Israele ha deciso di rivendicare l’attacco mirato. Una decisione meno inusuale della prima, dato che Tel Aviv evita di attribuirsi soprattutto gli omicidi mirati all’estero, spesso rifugiandosi dietro un ‘no comment’, probabilmente per evitare di venire accusato di operazioni militari al di fuori dei propri confini. Vero è che la dinamica degli assassinii è facilmente ricollegabile alle tecniche utilizzate dai servizi israeliani. “L’uccisione dell’omicida di massa Mohammed Deif, il Bin Laden di Gaza, il 13 luglio 2024 è un passo cruciale verso lo sradicamento di Hamas come organizzazione militare e politica e verso il raggiungimento degli obiettivi di guerra che ci siamo prefissati – ha commentato Gallant – Hamas è un’organizzazione che si sta disintegrando e i terroristi devono scegliere tra la resa e la morte“.
Detto questo, gli annunci di morti eccellenti sembrano essere stati sdoganati dal governo d’Israele e questo può nascondere motivazioni precise. Il giorno precedente all’uccisione di Haniyeh, lo ‘Stato ebraico’ aveva effettuato un altro importante attacco al di fuori dei suoi confini: aveva colpito sempre con raid aerei dei palazzi nella zona sud della capitale libanese Beirut, nel quartiere sciita di Dahieh, roccaforte di Hezbollah. In quell’attacco, del quale ha rivendicato la paternità, è stato ucciso Fuad Shukr, considerato il numero due nelle gerarchie del partito-milizia libanese nonché uno dei possibili futuri successori al leader Hassan Nasrallah.
La strategia delle rivendicazioni emersa in questi giorni potrebbe essere spiegata in diversi modi. Innanzitutto le si deve dare certamente una lettura interna: portare a casa le teste dei principali leader dell’organizzazione colpevole del massacro del 7 ottobre serve all’esecutivo per cercare di riacquistare un minimo di credibilità agli occhi della popolazione che non ha perdonato a Netanyahu e al suo governo l’incapacità di prevedere la mattanza di dieci mesi fa e anche per placare la sete di vendetta dell’ala più estremista dell’esecutivo che, così, avrà dei trofei da sventolare davanti alle facce dei propri elettori. Ma questa nuova strategia ha motivazioni che vanno anche oltre i confini israeliani: la pressione sul governo è enorme, anche da parte degli alleati storici, la carneficina commessa a Gaza è un peccato difficile da lavare per la comunità internazionale e quindi portare qualche risultato serve a legittimare, almeno agli occhi di Netanyahu e dei suoi alleati, le 40mila vittime nella Striscia di Gaza, le uccisioni sommarie in Cisgiordania, gli arresti arbitrari, l’aumento delle violenze da parte dei coloni sostenuti da Tel Aviv, i raid nei Paesi limitrofi e la guerra a distanza con Hezbollah.
Conseguenze sulle trattative?
Resta da capire se tutto questo, oltre ai fini del consenso, possa influenzare anche le trattative per un cessate il fuoco a Gaza. Nonostante nella lista degli eliminati manchi ancora il nome di colui che è considerato l’architetto del 7 ottobre, Yahya Sinwar, così tante morti eccellenti, compresa quella del numero uno di Hamas, potrebbero essere sufficienti a convincere Israele a trattare con l’organizzazione senza il timore di sentirsi accusare di non aver finito il lavoro nella Striscia, dopo 40mila morti e dieci mesi di guerra. Ma se anche questo dovesse verificarsi, non necessariamente significherebbe pace. La tensione con l’Iran, ad esempio, è oggi altissima: l’intelligence israeliana ha atteso che Haniyeh si recasse in Iran per l’insediamento ufficiale del presidente Masoud Pezeshkian per eliminare il capo dell’organizzazione palestinese. Un affronto che Teheran, dopo il bombardamento subito ad aprile su una base militare, al quale rispose lanciando razzi e droni su Israele, non può lasciare impunito. Nelle prossime settimane ci si attende che la Repubblica Islamica risponda violentemente all’affronto subito, così come è possibile che la situazione sul fronte libanese esploda, dopo gli ultimi attacchi di Israele a Hezbollah. La tregua a Gaza potrebbe così dare allo ‘Stato ebraico’ le energie per condurre nuove guerre con i suoi vicini.