Nima Baheli, analista geopolitico e di intelligence, già ufficiale di Riserva selezionata dell’Esercito italiano e Funzionario superiore alla Presidenza del Consiglio.

Israele ha colpito in rapidissima successione i vertici di Hezbollah e di Hamas. Cosa significa?
È probabile che a seguito degli incontri avuti negli Stati Uniti Benjamin Netanyahu intenda approfittare della debolezza di Joe Biden e del sostanziale vuoto politico a Washington per ottenere il più possibile sullo scenario mediorientale. In 24 ore Tel Aviv ha eliminato due esponenti degli altissimi livelli delle due organizzazioni, tra cui numero uno della parte dialogante di Hamas, con la funzione di frenare o almeno rallentare i negoziati per il cessate il fuoco a Gaza in corso con il Cairo e il Qatar. Si potrebbe dire che si sta portando avanti prima che possa essere eletta Kamala Harris, le cui prime parole fanno intravedere una correzione della linea tenuta da Biden o, nell’ipotesi auspicata dallo stesso Netanyahu, prima che venga eletto Trump.

Non è un mistero che se l’ex presidente repubblicano tornasse alla Casa Bianca il premier israeliano sarebbe il più felice tra i leader mondiali.
Questa continua escalation può essere letta come un modo per favorire le speranze che Trump possa vincere le presidenziali. Più Biden dimostra di non essere in grado di gestire il conflitto, più le promesse di Trump di abbassare la tensione in Medio Oriente, ma anche di risolvere il conflitto tra Russia e Ucraina, acquisiscono punti presso i settori dell’opinione pubblica americana sensibili all’argomento. Non possiamo dimenticare che Trump ha riconosciuto la sovranità di Israele sulle Alture del Golan e ha promesso di spostare la capitale a Gerusalemme. Con lui alla Casa Bianca Israele manterrebbe rapporti molto più forti che con Biden, che nell’ultimo periodo ha criticato il modo in cui il premier israeliano ha gestito il conflitto.

Tel Aviv ha eliminato il leader politico di Hamas con un raid “chirurgico” nel cuore di Teheran. C’è un messaggio?
Haniyeh abitava in Qatar, ma Israele lo ha colpito in giorni in cui era in Iran. Un attacco nella capitale in un edificio dei Pasdaran, nel centro di Teheran, a pochissime ore dall’insediamento del nuovo presidente Masoud Pezeshkian è anche un messaggio al palcoscenico mediorientale per dimostrare la reale forza, ovvero la effettiva debolezza e vulnerabilità, della Repubblica Islamica. Una sorta di tranello nel quale Teheran sa che non deve cadere.

Quale tranello?
Ora l’Iran dovrà ponderare una reazione che possa salvarle la faccia, cercando al contempo di evitare un’escalation che le costerebbe molto in termini finanziari e bloccherebbe il percorso “riformista” affidato a Pezeshkian, il cui mandato è quello di normalizzare i rapporti con l’Occidente nel tentativo di convincere la comunità internazionale a ridurre le sanzioni. Netanyahu è consapevole di questa esigenza: ha portato questo attacco per indebolire la Repubblica islamica nell’area scommettendo su una risposta ponderata. Neanche lui ha interesse a un conflitto più ampio. Ma non è l’unico messaggio che il premier israeliano ha voluto lanciare.

Cioè?
Con questo attacco Netanyahu si è tolto vari sassolini. È sicuramente anche un messaggio forte nei confronti della Cina che lo scorso anno, con l’intento di ritagliarsi il ruolo di attore geopolitico globale e mediatore, ha fatto incontrare Iran e Arabia Saudita e un mese fa ha messo allo stesso tavolo Olp e Hamas per cercare di tracciare le linee di quello che sarà il post-conflitto. Pechino, inoltre, non ha mai ufficialmente condannato l’attacco del 7 ottobre e ha sempre citato Hamas come partito politico e mai come organizzazione terroristica. E questo Netanyahu non lo dimentica.

Siamo autorizzati a pensare che Israele, abituato a fare guerre molto brevi ma questa volta impegnato da 10 mesi nella Striscia, voglia “finire il lavoro” mettendo fine una volta per tutte al dominio di Hamas a Gaza?
Oggi le capacità militari di Israele non sono più quelle di un tempo, possiamo dirlo sia alla luce del vacuum d’intelligence mostrato dai fatti del 7 ottobre, sia perché le Forze di Difesa Israeliane (Idf) sono impegnate da dieci mesi in una complessa operazione a Gaza. Netanyahu sa che sarebbe controproducente aprire un secondo fronte contro il Libano: Hezbollah ha combattuto in Siria contro le formazioni jihadiste e nel caso di un attacco di terra avrebbe una più forte esperienza di combattimento rispetto a Hamas. Non solo: se Hamas ha i razzi, Hezbollah ha missili e droni con cui Beirut potrebbe mettere in crisi il sistema di difesa Iron Dome e colpire in maniera intensiva il nord d’Israele fino a Tel Aviv. Una prospettiva che nessuna delle due parti vuole. C’è poi un altro fattore da considerare.

Ovvero?
Il passaggio generazionale che sta avvenendo nella classe dirigente: il potere sta passando in mano a israeliani di origine mediorientale e agli ortodossi, con ripercussioni sulla capacità militare umana e una conseguente perdita di efficienza dell’Idf. L’idea di reclutare gli ebrei ortodossi, finora esenti da obblighi militari, ha attirato forti critiche sul governo. Nei primi anni dalla nascita dello Stato quella ortodossa era una componente minoritaria, oggi ha indici di natalità più alti e sta aumentando di consistenza.

Chi prenderà il posto di Haniyeh?
Dipenderà da logiche interne difficili da anticipare. È evidente come in questi dieci mesi Israele, oltre che con attacchi di massa nella Striscia, con i suoi raid chirurgici contro le leadership di Hamas e Hezbollah abbia colpito le due organizzazioni mettendole in difficoltà nel trovare rimpiazzi sia ai vertici che nei quadri medi, come nel caso di Hezbollah i cui quadri medi che avevano esperienza di combattimento in Siria difficilmente sono rimpiazzabili in caso di combattimento.

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