Luigi Brugnaro si appresta ad affrontare il più incandescente dei consigli comunali della sua carriera di sindaco di Venezia. L’inchiesta per corruzione della Procura della Repubblica, con l’arresto dell’assessore Renato Boraso e di una pattuglia di imprenditori, è di tale gravità che una qualsiasi amministrazione sarebbe già arrivata al capolinea. Invece a Venezia accade che l’unica concessione di Brugnaro alle opposizioni, che ne chiedono le dimissioni, è stata quella di anticipare a venerdì 2 agosto (rispetto a metà settembre, data annunciata in un primo tempo) lo svolgimento del dibattito consiliare. Il sindaco ha comunque già fatto trapelare la sua posizione: “Sono sereno, ribatteremo colpo su colpo. Andiamo avanti. Non possiamo mettere fine all’esperienza amministrativa cominciata nove anni fa”.
Di colpi cui ribattere ce ne sono molti. Innanzitutto deve replicare ai sospetti di corruzione, legati a una trattativa per vendere a un imprenditore di Singapore 42 ettari di terreno che aveva acquistato nel 2005 in riva alla laguna, garantendo modifiche urbanistiche che solo l’amministrazione comunale poteva fare. Poi l’affare non andò in porto, ma secondo i Pm Roberto Terzo e Federica Baccaglini è sufficiente la trattativa che si svolse in due momenti diversi (tra il 2016 e il 2017) per sostenere la corruzione. Poi c’è l’accusa di aver venduto Palazzo Papadopoli, in centro storico, allo stesso mister Ching, con uno sconto da 14 milioni di euro a 10,8 milioni di euro, per ingraziarselo. La proprietà comunale diventò così privata, ma non è mai stata restaurata per diventare un albergo di lusso.
Fin qui i capitoli penali che riguardano non solo Brugnaro, ma anche i suoi più fedeli collaboratori, Morris Ceron e Derek Donadini, uomini-azienda diventati rispettivamente direttore generale del Comune e vicecapo di gabinetto, responsabile dell’attuazione del programma. Il quadro delineato dagli investigatori è però molto più ampio, anche se non è sfociato in altri capi d’accusa. Riguarda la gestione complessiva del Comune asservita a interessi aziendali, ma anche il conflitto di interessi dell’imprenditore che non è stato risolto da un blind trust molto poco “cieco” (con affidamento a un professionista delle proprietà da gestire), visto che dipendeva dalle scelte degli uomini della galassia-Brugnaro. I rapporti della guardia di Finanza sono molto severi ed elencano tutte le persone con interessi nelle aziende poi impiegate nell’amministrazione comunale e nelle società partecipate.
Il sindaco avrebbe anche chiuso un occhio, se non addirittura coperto, le malefatte di Boraso, visto che aveva raccolto informazioni secondo cui l’assessore “chiedeva soldi” ai privati. Invece di denunciarlo, lo aveva invitato a darsi una calmata e a non parlare al telefono. Basta leggere le 174 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Alberto Scaramuzza, o le oltre 900 pagine della richiesta dei pm per capire quanto vasta sia la ragnatela degli interessi del sindaco.
Il fatto è che le denunce di natura politica dal 2015 non sono mai venute meno. A cominciare dalle richieste dell’ex magistrato Felice Casson che nel 2017 chiese a Brugnaro di percorrere la via del blind trust, il che venne fatto, ma in modo inefficace secondo gli investigatori. Nel 2018 Brugnaro diede vita a una sceneggiata durante un pirotecnico consiglio comunale che gli chiedeva di giustificarsi per le trattative legate ai terreni dei Pili, che voleva alienare. In quella occasione parlò per tre quarti d’ora e poi se ne andò, senza assistere al dibattito, lasciando sullo scranno la coppa tricolore vinta l’anno precedente dalla sua squadra di basket, la Reyer. Rimase al suo posto, nonostante le polemiche. Adesso che quei fatti sono stati ricostruiti dai finanzieri e dai pubblici ministeri, con il sigillo del gip, le minoranze chiedono le dimissioni del sindaco e della giunta, anche perché le accuse a Boraso di aver incassato bustarelle mascherate da consulenze professionali, sono troppe per non chiamare in causa la gestione della macchina comunale.
Brugnaro ha concesso lo svolgimento del consiglio comunale straordinario, ma ha già preso le sue precauzioni. Ha compattato il centrodestra, anche se Fratelli d’Italia ha presentato qualche giorno fa un paio di richieste per sospendere gli indagati dalle loro funzioni, ai vertici del Comune e di alcune società partecipate. Per ora il sindaco ha assunto le deleghe sulla mobilità già affidate a Boraso e non ha preso altri provvedimenti nei confronti dei dirigenti indagati. La scelta di convocare il consiglio nella sede municipale di Mestre, di venerdì mattina (giorno di mercato), anziché a Ca’ Farsetti a Venezia, sembra dettata dall’intenzione di limitare il flusso di cittadini, visti gli spazi più angusti. I partiti di opposizione hanno invece chiesto una partecipazione di massa per sostenere la richiesta di dimissioni.
Nel frattempo i difensori di Boraso ne hanno chiesto la scarcerazione, perché a seguito delle dimissioni dall’incarico non sarebbe più in grado di reiterare i reati di corruzione che gli vengono contestati. Tra bustarelle incassate o richieste, si arriva a una cifra di circa 800mila euro, mentre le fatturazioni fasulle sarebbero pari a mezzo milione di euro. Il Tribunale del riesame di Venezia ha confermato l’arresto in carcere respingendo il ricorso. Ha invece modificato in semplice detenzione domiciliare il provvedimento a carico dell’imprenditore Fabrizio Ormenese. E’ stata scarcerata la dirigente I.VE (Immobiliare Veneziana) Alessandra Bolognin. L’ordinanza nei suoi confronti è stata annullata dopo che il difensore, avvocato Carmela Parziale, ha depositato la trascrizione integrale di un’intercettazione, da cui risultava che la sua assistita non era presente nel momento in cui Boraso e Ormenese parlavano di soldi in relazione a una compravendita immobiliare. La Bolognin in quel momento si era assentata dalla stanza, per reperire alcuni documenti. Siccome proprio il riferimento al denaro era stato individuato dal gip quale “discrimine” dell’accusa di corruzione, l’avvocato Parziale ha sostenuto la mancanza di consapevolezza dell’accordo corruttivo. Confermati i domiciliari per gli imprenditori Marco Rossini e Matteo Volpato.