L’acqua altissima che ha sommerso Venezia, con una Tangentopoli che sembra arrivare da altri tempi, non scalfisce Luigi Brugnaro. Con la marea vera, nel 2019, indossava gli stivaloni per presidiare piazza san Marco. Adesso che deve far fronte ai marosi agitati dalla Procura della Repubblica, il sindaco-amministratore si protegge leggendo una relazione circospetta: non una virgola di troppo, nemmeno una polemica, segno che il testo è stato limato dai suoi avvocati e dal suo entourage. Ma prima dell’annuncio bisogna attendere una cinquantina di minuti, mentre la sede del palazzo comunale di Mestre è presidiata dentro e fuori da centinaia di persone che agitano cartelli, invocano le dimissioni e gridano “Vergogna! Vergogna!”. Alle 11:12, quando nemmeno i più focosi manifestanti possono più nutrire qualche dubbio in merito, Brugnaro rassicura tutti i suoi: “Amo le sfide più difficili. Non mi dimetto”.

L’omaggio della maggioranza – Sugli scranni del consiglio comunale si alzano, applaudendolo, i rappresentanti del suo ormai defunto partito “Coraggio Italia”, di Fratelli d’Italia, di Forza Italia e della Lega (il capogruppo gli dedica una tessera onoraria). Omaggio plateale, ostentato, all’uomo che da nove anni tiene in pugno l’amministrazione pubblica e la città, gestita secondo i magistrati come una cosa privata. Brugnaro non molla, neanche se è indagato per corruzione assieme al direttore generale e al capo di gabinetto del Comune, neppure se gli hanno arrestato l’assessore alla mobilità Renato Boraso (finito in carcere) e scoperchiato un verminaio di affari, appalti, soldi e mazzette. Come non fosse successo nulla, in ossequio al nuovo assioma del potere, secondo cui l’investitura per elezione popolare rende ininfluenti le accuse giudiziarie. Come se un sistema democratico non fosse composto di equilibri tra poteri diversi, e quello giudiziario non influisca sul mondo della politica.

Gli attacchi dellle opposizioni – Durante il dibattito, in cui l’opposizione che tenta inutilmente di dare l’assalto al Comune-azienda, riecheggiano le parole severe di Gianfranco Bettin, consigliere del gruppo Verde progressista: “A Palazzo Ducale c’è l’effigie del Doge che si inginocchia davanti al Leone della Serenissima, perché non c’è nulla di più importante del servizio del bene pubblico. Qui è il leone che si inginocchia di fronte all’insopportabile conflitto d’interessi del sindaco, il quale dovrebbe chiedere: mentre sto facendo gli affari miei, posso gestire la cosa pubblica?”. L’aula del consiglio comunale straordinario è irrimediabilmente divisa, perché Brugnaro non arretra di fronte alle imputazioni, pur manifestando un formale rispetto per la magistratura. “Non ha mai detto la parola ‘scusa’”, gli rinfaccia, dalle minoranze, Marco Gasparinetti di Terra Acqua 2000, grande fustigatore del sindaco. “Siamo di fronte a una gestione padronale della città” rincara Sara Visman del Movimento cinque stelle. Monica Sambo, del Pd: “Lei si è girato dall’altra parte, lei ha tradito Venezia”.

Il sindaco: “Sono innocente” L’intervento di Brugnaro, pur misurato nei toni, assomiglia già all’autodifesa che terrà quando sarà interrogato, ma allo stesso tempo è un riconoscimento, nome per nome, dei collaboratori fidati (e ora indagati). “Mi ritengo totalmente innocente. Non ho fatto nulla di cui vergognarmi e continuo a guardarvi in faccia. Da nove anni lavoro 12 ore al giorno per la città, ci ho messo tutto me stesso, la mia vita. Ho anche rischiato di lasciarci le penne (il riferimento è a un problema di salute che riuscì a superare alcuni anni fa, ndr). Ho il diritto-dovere di rimanere in carica per non tradire i cittadini e finire le opere iniziate”. Il refrain sarà ripetuto da tutti gli uomini della maggioranza.

“Fui io a dire no a mister Ching” – L’arringa parte dall’affare dei terreni dell’area dei Pili, che il sindaco tentò di vendere a un magnate di Singapore, Chiat Kwong Ching, per 150 milioni di euro dopo averli acquistati personalmente nel 2005 per cinque milioni. Brugnaro elenca gli strumenti urbanistici per dimostrare che quell’area era destinata alla costruzioni di case, darsena e palazzetto ben prima che lui fosse eletto. “Mister Ching l’ho incontrato nell’aprile 2016 col signor Lotti (il manager dell’imprenditore, ndr), perché era interessato a investire a Venezia. Ed è stato lui a chiedermi di vedere anche i documenti dell’area Pili. Nel 2015 il Comune era in pre-dissesto e mi sono impegnato con rapporti personali con gli imprenditori per lo sviluppo della città”. Per questo avvenne l’incontro. “Dopo mi risulta che ci siano state interlocuzioni tra Porta di Venezia (società di Brugnaro, ndr), proprietaria dei Pili, e l’imprenditore. Solo a dicembre 2017 l’ho rivisto per la seconda e ultima volta a casa mia per omaggiare un grande imprenditore”. Ammette così l’incontro in una sede non istituzionale, nel corso del quale, secondo l’accusa, è stato chiesto all’uomo d’affari un anticipo di dieci milioni di euro. “La riunione durò meno di un’ora. Ma purtroppo il progetto era molto impattante e non mi è piaciuto per niente. Credo che in quell’occasione Ching e Lotti abbiano capito. Ci siamo salutati in modo cordiale. Per me restano persone rispettabili”. Per quanto riguarda invece la vendita di Palazzo Papadopoli a Ching per 10,8 milioni di euro, anziché i 14 milioni del valore di stima, Brugnaro rivendica come sia stata fatta nell’interesse di Venezia: “Di quei soldi i bilanci avevano bisogno come ossigeno. Fu un risultato molto positivo dopo anni di aste a vuoto. Furono rispettate le norme”.

La difesa dello staff – Insieme al primo cittadino sono indagati alcuni suoi stretti collaboratori, indicati come i bracci operativi dei suoi interessi nella macchina comunale. Brugnaro li difende senza esitazioni: Morris Ceron, il direttore generale, “è un amico e una persona onesta“. Derek Donadini, vice capo di gabinetto, “è una gran brava persona persona che ha affrontato centinaia di questioni tecnico-politiche”. Nemmeno un accenno al sospetto che abbiano costituito una specie di “cupola”, in un sistema di corruzione ambientale, come scritto dai pm. Brugnaro poi esclude che la squadra di basket Reyer, una sua creatura, fosse stata finanziata da sponsor interessati: “Il presidente Enrico Casarin è per me come un fratello. Non riuscirete ad abbattere la Reyer, con tutte le sue vittorie… Le sponsorizzazioni sono state fatte pubblicamente. Adesso dovrò chiedere il permesso per gioire con i miei giocatori e tifosi?”.

“Indagine interna su Boraso” Neanche l’arresto dell’assessore Boraso (dimissionario) scuote l’incrollabile autodifesa di Brugnaro. “Ho chiesto un’indagine interna sull’operato dell’ex assessore. Intanto le sue deleghe le ho avocate a me. Lo dovevo ai cittadini per rassicurarli sulla continuità operativa del Comune”. Farà le pulci a tutte le pratiche di Boraso, una decina delle quali sono già confluite in altrettanti capi d’accusa per corruzione. Boraso è sospettato di aver incassato o ricevuto promesse per oltre ottocentomila euro di mazzette, con un giro di cinquecentomila euro di fatturazioni compiacenti. Punto dolente per Brugnaro è l’intercettazione in cui lo si ascolta rimproverare Boraso perché ha saputo che “chiede soldi”, lo invita a darsi una calmata, ma non lo denuncia. “Ero molto arrabbiato perché faceva politica all’antica, con tante promesse mentre io mostro i fatti. Volevo capire se c’era qualcosa di più, ma mai avrei potuto solo pensare quello che è emerso dalle indagini. L’ho rimproverato per il suo comportamento superficiale. Se avessi avuto una minima informazione circostanziata, basata su fatti concreti, lo avrei rimosso dalle deleghe e denunciato alle autorità competenti. Se le accuse saranno confermate, la posizione dell’amministrazione sarà di costituirsi parte civile”. Con una conclusione garantista: “Io sono sempre stato dalla parte della legalità, non farò processi in piazza”.

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