Sul caso di Imane Khelif e Angela Carini si è detto e si dirà parecchio, perché dalla complessità non si esce con due minuti d’intervento in prima serata su ReteQuattro. Persino Giorgia Meloni e Ignazio la Russa hanno detto la loro, cianciando di discriminazione alla rovescia e di organizzazioni sportive brutte e cattive che fanno gareggiare una campionessa italiana con un uomo. Escándalo!
È dunque imperativo cercare di mettere ordine nel caos. Partiamo dalle critiche. Tra i dogmi della destra populista c’è il binarismo sessuale, cioè l’idea del carattere assoluto e immutabile del dimorfismo sessuale per cui in natura esistono solo due sessi (maschio e femmina) ai quali corrispondono due generi (uomo e donna) sostanzialmente immutabili nel corso della vita.
La chiave di volta di questa idea è il sesso accertato e attribuito alla nascita da un medico mediante analisi morfologica dei genitali del neonato, ove indagini ulteriori vengono solitamente effettuate solamente in caso di genitali ambigui (i famosi intersex). In base a questa idea, il sesso alla nascita sarebbe predittivo del genere in età puberale e adulta e, se così non è, si tratta certamente di un errore o di una mostruosità. Le conseguenze di questo dogma sono evidenti: una persona trans Male-to-Female resta un uomo checché ne dicano i suoi registri anagrafici, e così via.
Il più grande sponsor di questa idea è la Chiesa cattolica (sia Ratzingeriana sia Bergogliana, malgrado l’apparente progressismo di quest’ultima) e i suoi fans più sfegatati sono i Movimenti pro-vita e anti-gender, che infatti già dal loro nome esprimono tutto il determinismo sessuale in grado di trasformare un organo genitale in destino. Siamo ciò che abbiamo nelle mutande, dicono, facciamocene una ragione.
Imane Khelif sembra mettere in crisi questo quadro, ma solo apparentemente. Non potendosi appellare a organi sessuali di cui non ha conoscenza (fortunatamente le “naked parade“, dove l’atleta veniva costretta a posare nuda davanti a un pool di medici, sono state abolite già negli anni ’60, e poi c’è il diritto alla privacy, signora mia), il linguaggio della destra populista si appiglia alla genetica: la presenza del cromosoma Y nel corpo di Khelif ne farebbe un uomo. Oppure è il livello di testosterone. E poi quei muscoli, l’aspetto androgino, i pugni che tira.
C’è qualcosa che, scorrendo nel corpo di Khelif come un veleno letale, ne fa un uomo. Anziché interrogarsi sulle fallacie logiche del binarismo sessuale, che trova nel concetto di natura la sua intrinseca debolezza – è la natura che fa correre alcun* di noi fuori dal binario – detto linguaggio rafforza le sue categorie politiche: è colpa del “politicamente corrotto” (Vannacci), “per non discriminare si finisce per discriminare” (Meloni), “vergogna ai burocrati che hanno permesso un match non ad armi pari” (Salvini, che tira fuori anche il “woke”, sempre utile quando ti mancano le padelle in cucina), “un’ingiustizia brutale” (J.K. Rowling).
Lasciamo da parte l’ideologia del binarismo sessuale, che è l’unica vera e violenta ideologia presente nel caso. Per il resto, quello di Khelif è un caso di rapporto tra diritto ed etica dello sport. Non c’è dubbio che gareggiare ad armi pari costituisca il fondamento di ogni competizione sportiva e che ogni vantaggio atletico che non sia fisiologico, cioè il risultato del duro allenamento, della testardaggine e del sacrificio, debba essere visto con sospetto. Ma a fondamento del diritto e della giustizia sportiva devono esserci regole chiare e trasparenti, sorrette da un’etica che mette al centro l’atleta, l’integrità del suo corpo e la sua salute fisica e mentale. Ecco allora che si aprono tre prospettive che aiutano a comprendere meglio il caso.
1. In termini di idoneità (eligibilità) alle gare, a seguito di un’indagine approfondita e rigorosa l’International Boxing Association (IBA) aveva ritenuto Khelif (assieme alla collega taiwanese Lin Yu-ting) inidonea proprio per la presenza del cromosoma Y (qui il verbale del CDA dell’IBA). Le regole dell’IBA però non si applicano alle Olimpiadi perché l’organizzazione non ha adempiuto alle richieste di riforma del Comitato Olimpico ed è stata dunque estromessa dall’evento (decisione ratificata anche da un tribunale arbitrale). Alle gare di boxe si applicano pertanto le regole del Comitato e non quelle dell’IBA, che si possono trovare qui. Leggiamo dai Principi 5, 6 e 7 dell’IOC Framework on Fairness, Inclusion and Non-Discrimination on the Basis of Gender Identity and Sex Variations che:
a. Il vantaggio atletico non può presumersi per il solo fatto che l’atleta ha caratteristiche sessuali particolari (androginia o, come sostiene Silvia Camporesi, sindrome dell’ovaio policistico);
b. Occorre la prova del vantaggio atletico, una prova che possa reggere in tribunale;
c. Non si può obbligare l’atleta ad assumere trattamenti farmacologici, ad esempio per correggere l’eccesso di testosterone, perché non è etico prescrivere medicine a chi non è malato.
Si capisce dunque perché Khelif può gareggiare: la durezza di un pugno non può evidentemente costituire prova dell’esistenza di un vantaggio atletico.
2. È evidente nella narrazione dominante che un ruolo decisivo è attribuito al cromosoma Y e all’eccesso di testosterone, mentre esso dovrebbe essere attribuito al vantaggio atletico. È il vantaggio atletico a rendere l’incontro con Khelif impari, a meno di ammettere che si può legittimamente discriminare sulla base delle caratteristiche genetiche, il che è un’aberrazione in termini giuridici. Il problema è che non vi è alcuna prova scientifica che dalla presenza del cromosoma Y o dall’eccesso di testosterone derivi un vantaggio misurabile. Tutto quello che abbiamo al riguardo è un’accozzaglia di narrazioni sulla mascolinità del testosterone e sulla forza fisica dell’uomo, che sembrano più un retaggio di cultura patriarcale che ciò che serve a un giudizio sulla parità delle armi in una competizione sportiva.
3. Perché questi controlli si fanno solo sulle atlete donne e non sugli atleti uomini? Nessuno chiede conto a Michael Phelps, uno straordinario nuotatore vincitore di 65 medaglie d’oro, del fatto di avere un torso lungo e delle gambe più corte della media e di poter dunque nuotare più veloce. Solo una mente maschilista e patriarcale può pensare di chiedere conto della forza fisica solo alle donne e non agli uomini e di accusare una donna che vince di essere un uomo. Khelif non è invincibile, e anzi nessuna delle atlete che negli ultimi anni sono state accusate di godere di un vantaggio atletico (ad esempio Caster Semenya) hanno vinto in ogni occasione che le è stata offerta.
Il caso Khelif raccontato attraverso il linguaggio della destra populista rivela un’articolata logica di potere che piace molto a Meloni & co.: l’atleta straniera aggressiva e brutale, un uomo scambiato per donna, che sottomette ingiustamente, godendo di un illecito vantaggio, un’altra atleta, italiana, simbolo della “Nazione” meloniana, che piange per l’ingiustizia e il dolore fisico subiti e dunque si presenta come la vittima di un sopruso, è in ultima analisi la rappresentazione plastica di quei “fritti misti” che l’attuale Presidente della Camera Lorenzo Fontana accusava d’invasione.
È l’idea della “sostituzione etnica” di un popolo geneticamente puro con uno spurio che può prevalere solo attraverso la violenza brutale e l’ingiustizia. È un’idea fascista. Dovremmo chiederci cosa sarebbe accaduto se l’atleta con il cromosoma Y fosse stata Angela Carini.