Probabilmente chi legge, o non tutti almeno, ha in mente cosa voglia dire “piemontesità”. O “astigianità”. È quel modo garbato, quasi contadino, di portare avanti le cose. Ci si spacca la schiena di lavoro, a volte la fatica diventa davvero troppa da sostenere, ma se è una cosa che piace la si fa “perché è così che deve andare”. Massimo Cotto era questo: un astigiano che aveva la passione per tutto ciò che era cultura. La cultura che grondava da quel territorio così in antitesi tra alfieriana austerità e un’anima nazionalpopolare. Non a caso di Asti è stato anche Assessore alla cultura. Oltre che una voce che tutta l’Italia del rock non può scordare. Non lo farà mai.
Breve curriculum di una stupenda persona che ci ha lasciato: è stato, tra le sue esperienze, voce di Radio Capital, poi è passato a Virgin. Ha scritto una marea di libri, perché era amico di tanti: Ligabue, Guccini, Mauro Repetto giusto per citarne qualcuno. Ha raccontato l’Italia della musica in una quantità di aspetti che non basterebbe una bibliografia intera – cioè la sua – ma soprattutto l’ha fatto con quella voglia di non essere protagonista o al centro, ma di fare da didascalia a chi al centro meritava di essere.
Era questa la sua grande forza: ogni mattina andava in onda, poi si faceva venire in mente delle idee. Come quella di dare spazio su Radio Capital a un ragazzino di 17 anni, in collegamento telefonico dalla scuola, per commentare le partite del Torino. L’altra sua grandissima passione nazionalpopolare.
In curva gli hanno dedicato anche uno striscione, che lui sui suoi canali Social ha ripubblicato con grande orgoglio. Con quell’emozione che non ti aspetti, ma che invece è così spontanea da far dire: “Sì, Massimo: sei davvero Rock”. Di aneddoti ne ha tanti, molti se li porta con sé.
Ma a pranzo spesso ricordava di quando era alle elementari e per l’appello la sua maestra “new age” voleva a tutti i costi dire prima il nome e poi il cognome. “Massimo Cotto”, “E MINIMO CRUDO” rispondevano i compagni. “Allora avevo parecchi capelli”, scherzava. C’è stato un periodo con il pizzetto, poi senza “per ringiovanirmi”. Poi quegli occhiali, con la montatura colorata che risaltavano ancora di più quel sorriso che in faccia gli era proprio stampato.
Si arrabbiava ogni tanto, ma non era mai sgarbato. Aveva una moglie, Chiara, “bellissima” e un figlio, Francesco, che può dire di avere avuto un grande maestro, oltre che un grande padre. A lui ha dedicato il suo ultimo libro: “Il rock di padre in figlio”. Uno dei suoi ultimi post su Instagram è dedicato a Giorgio Faletti, anche lui astigiano, anche lui suo grande amico.
E noi salutiamo Massimo con le sue stesse parole. Perché un addio a 62 anni da parte sua non ce l’aspettavamo, ci riempie di malinconia e tristezza. E raccontare di più non avrebbe senso. Non sarebbe rock.
“Mai avuto dubbi che tu non sia davvero lì sotto, nella terra dove hai voluto essere sepolto. Sono dieci anni oggi che sei nel vento, nei ricordi, nelle nostre parole. Dieci anni e sembra ieri. Io e Chiara parliamo spesso di te e con te, lo sai. Oggi, 4 luglio, facciamo parlare te: “Forse possiamo cambiarla ma è l’unica che c’è, questa vita di stracci e sorrisi e di mezze parole. Forse cent’anni o duecento è un attimo che va, fosse di un attimo appena sarebbe con me. Tutti vestiti di vento a inseguirci nel sole. Tutti aggrappati ad un filo e non sappiamo dove”.
Ciao, amico mio.