In principio fu il Giappone. Già: prima di Russia, Cina, India, Arabia Saudita a tentare di spostare i riflettori del pallone da Europa e Sud America ci aveva provato il paese del Sol Levante.
Era l’inizio degli anni ’90: un calcio che aveva un solo e inequivocabile paradiso, la Serie A, già cercava altre fonti di sovvenzionamento. Prima di rubli, yuan e petroldollari arrivarono gli yen.
In realtà prima di quegli anni il calcio in Giappone non era una realtà strutturata, non aveva un campionato ufficiale ed era perlopiù legato alle scuole (Holly e Benji docet). Il vento iniziò a cambiare negli anni ’80: la Toyota propose di portare la Coppa Intercontinentale a Tokyo, nel 1993 parte la prima J-League, il campionato ufficiale giapponese. E certo, per attrarre, prima che i ragazzi del movimento scolastico servono i campioni, e così gli yen cominciano ad arrivare in Europa e in Sud America.

Le squadre giapponesi dell’epoca, dal Kashima Antlers ai Verdy Kawasaki al Jubilo Iwata, iniziano dunque a tentare i campioni, e non solo quelli a fine carriera, come Zico, ad esempio, che è tra i primi a volare in Giappone, ancor prima della creazione della J-League, alla soglia dei 38 anni. Per la verità devono iniziare pure a formare i tifosi: qualcuno li organizza con tamburi e ballerine di samba. Per la prima stagione, infatti, arriva gente del calibro di Ramon Diaz o di Gary Lineker e sono in tanti ad essere tentati dai soldi giapponesi. Fa scalpore, infatti, nel 1994 il passaggio dall’Inter al Jubilo Iwata dell’eroe di Italia ’90 Totò Schillaci, primo calciatore italiano a giocare in Giappone peraltro in anni in cui dall’Italia non andava via praticamente nessuno.

E invece due miliardi di lire all’anno portano Totò, ai margini nell’Inter, al Jubilo Iwata, società di proprietà della Yamaha che pur di accaparrarsi l’attaccante siciliano oltre al cospicuo ingaggio gli offre una casa spaziosa, un interprete e anche un autista. Schillaci ripaga quell’investimento e anche l’entusiasmo con cui viene accolto (ancora oggi i social della J-League non mancano di celebrarne i gol), con 78 reti, un titolo di capocannoniere e un campionato giapponese vinto nella sua ultima stagione giocata in Giappone e in carriera.

È un breccia che si apre: sono in tanti a prendere l’aereo per Tokyo, o ad arrivare sul punto di farlo. Fu sul punto di trasferirsi in Giappone, trent’anni fa, addirittura Franco Baresi, capitano della nazionale e del Milan fresco di delusione negli Stati Uniti: poi prevalse il cuore e rimase al Milan. Ci andò, invece in Giappone un altro pezzo di quella nazionale italiana sconfitta a Pasadena: Daniele Massaro, all’epoca 34enne, per circa 3miliardi e mezzo di lire. E dalla finale di Pasadena ai club di J-League passeranno pure Leonardo, futuro milanista, gli ex viola Dunga e Mazinho e poi ancora Zinho, Jorginho.

Investimenti anche volti a preparare il paese al Mondiale che si sarebbe giocato nel 2002, perché il Giappone in quel periodo non fa incetta soltanto di campioni, ma inizia ad importare, seppur solo per stage, addirittura gli arbitri, come Alfredo Trentalange “prestato” per due mesi per elevare gli standard dei direttori di gara locali. Non solo: il paese si accaparrerà anche il ritiro estivo della Lazio di Zeman del 1995 a Kiroro, sull’isola di Hokkaido. Investimenti che porteranno la J-League ad essere forse il campionato più interessante al di fuori dell’Europa e del Sud America, con campioni del calibro di Protasov, Pixi Stojkovic, Basile Boli, Carlos Mozer, Pedro Troglio, Antonio Careca a darsi battaglia per il titolo.

Non solo campioni a fine carriera, vedi Cesar Sampaio che di lì a poco sarebbe stata una colonna del Brasile finalista del ’98, così come Leonardo, ma anche allenatori: Arsene Wenger, prima del suo ventennio all’Arsenal, è passato per il Nagoya Grampus, con cui ha vinto la Coppa dell’Imperatore. In principio fu il Giappone, già, ma se rispetto a 30 anni fa la J-League ha ridotto la portata degli investimenti in termini di ingaggi di campioni, restano alcuni risultati strutturali raggiunti a differenza di altri campionati che in seguito hanno percorso strategie simili.
Quello giapponese resta il miglior campionato asiatico, i club e le giovanili tirano fuori talenti in maniera consolidata e la nazionale si qualifica ormai stabilmente ai Mondiali dal 2002, superando il girone quattro volte su sei. Insomma, il Mondiale del 2002 è ormai preistoria, eppure per il Giappone il calcio continua ad essere una realtà, tanto che l’obiettivo dichiarato della federazione nipponica è diventare campioni del mondo entro il 2050. Forse un po’ troppo, ma dai tempi di Totò Schillaci e dai tifosi “addestrati” la situazione è migliorata parecchio.

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